Siamo tutti Salvini (e sprofondiamo)

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Che Salvini troppo spesso twitti prima di pensare non lo scopriamo oggi – certo, un ministro che riesce a mettere insieme il Milan e una calamità naturale nello stesso messaggino segna comunque un record, qualcosa che vale la pena appuntarsi, anche solo per evitare che i posteri liquidino l'episodio come una leggenda: no, Maria Antonietta non disse mai quella cosa delle brioches ma sì, Salvini disse quella cosa del Milan. 

E potremmo andare avanti ancora un poco a prendercela con lui. Certo, potrebbe essere interpretato come un espediente per distogliere l'attenzione dalle responsabilità di una classe dirigente locale e sul suo ormai ottantennale modello di sviluppo, che in soldoni consisteva nel cementificare una palude sperando che andasse tutto bene. Non andrà tutto bene. Facile dirlo oggi – ma si poteva dire con una certa sicurezza vent'anni fa, e c'è invece ancora chi non vuole ammetterlo. Del resto in Emilia-Romagna lo sappiamo, sensibilità green e speculazione sui lotti edificabili vanno a braccetto, e Salvini non c'entra un granché: parliamo dell'avvoltoio che viene a vedere se nella catastrofe c'è qualcosa da guadagnarci, non dell'istrice che la catastrofe l'ha pazientemente scavata. 

Siccome comunque Salvini la gogna se la merita (non fosse altro perché dopo una settimana di alluvioni il governo non ha ancora varato lo stato di emergenza), propongo di farne almeno una figura sacrificale; di riconoscere nella sua colpa quella di tutti noi. Siamo tutti Salvini – certo, nessuno è Salvini quanto lui, ma siamo tutti un po' Salvini, ogni volta che commentiamo il disastro del giorno con una botta di benpensantismo e un colpetto di benaltrismo. Siamo tutti Salvini, sempre alla ricerca del primo facile colpevole, anche se non ci crediamo neanche noi: ma abbiamo un profilo pubblico, insomma non possiamo mica far finta di niente anche se non abbiamo niente da dire; vogliamo semplicemente far notare che ci siamo, ci preoccupiamo, invece di pensare ai fatti nostri o al Milan.  

Siamo tutti Salvini, nel senso che l'apocalisse ci troverà in mutande sul divano e contrariati perché insomma, certo, il settimo sigillo e i quattro cavalieri e tutto il resto, ma noi volevamo sapere chi vinceva la Champions. Siamo spettatori, da che siamo nati; da quando c'è internet siamo pure commentatori; di qualsiasi cosa succeda ci piacerebbe trovare un colpevole alla svelta, che sia un istrice o uno speculatore edilizio; così possiamo cambiare canale rapidamente e trovare un'altra cosa più interessante, le alluvioni non sono così interessanti. Siamo tutti Salvini perché, in definitiva, non tolleriamo che il mondo cambi. Benché il mondo cambi da sempre, e molti di noi vivano e lavorino da sempre immersi nelle correnti di questo movimento: lo stesso Salvini, in epoche più stabili si sarebbe ritrovato commesso viaggiatore. Proprio perché tutto cambia, in modi che per lo più non ci piacciono, S. si è ritrovato bello pronto il suo prodotto da smerciare, il suo malcontento quotidiano da assecondare. 

Siamo tutti Salvini ogni volta che ci guardiamo indietro come se indietro ci fosse un equilibrio che pensiamo di aver perso, un'età dell'oro che non tornerà mai, probabilmente a causa di un complotto di persone malvagie che ce l'hanno esattamente con noi. Siamo tutti Salvini, pronti a puntare il dito, verso chi? Non è così importante: l'essenziale è puntare, catalizzare l'attenzione e spostarla in un punto X che può cambiare a piacere – Putin può diventare in pochi mesi da alfiere dei valori tradizionali a orco assassino nemico dell'occidente. L'importante è puntare, magari non essere i primi a estrarre il dito perché poi tocca a te scegliere l'obiettivo e se non trovi il più adatto al momento rischi una brutta figura. Ma se calcoli bene i tempi, se sfoderi l'indice né troppo svelto né troppo tardi, qualche altro intorno a te ti avrà già suggerito una direzione, un obiettivo: a questo punto basta imitarlo, qualcun altro lo sta già imitando, e se in tanti puntano verso lo stesso obiettivo un motivo ci sarà: fino a quella volta, che prima o poi ci capita, quella volta in cui ti accorgi che tocca te, è su di te che stiamo tutti puntando. 

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Non resta che sperare in Di Maio (rendetevi conto)

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Questa crisi politica mi trova dell'umore meno adatto a interessarmene. In teoria non sono di quelli autorizzati a sentirsi nauseati da una conta parlamentare. Prima dell'emergenza ero un fiero parlamentarista; lo sarò anche quando e se l'emergenza finirà: invece uno che parlamentarista non era è Matteo Renzi. Anch'io trovo beffardo che si sia messo a giocare all'ago della bilancia con un partitino, come qualsiasi democristiano post-diaspora che ha sempre finto di non essere; la beffa però mi sembra la stia facendo lui a me. Certo, lui è sempre lo stesso narciso che scalpita per l'attenzione (e per amministrare qualche fondo europeo), ma io? Lui è inquieto, lo sarà sempre finché non tornerà sotto il riflettore più importante (quindi lo sarà sempre), ma io invece perché sono così tranquillo? Davvero credo che il Conte 2 sia il migliore dei governi possibili? Davvero sono così stanco e sfibrato da non notare l'incompetenza generalizzata, i disastri, l'irresponsabilità?

Probabilmente sì.

Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l'Aldilà

Non so neanche per chi voterò – no, stavolta è peggio: stavolta non m'interessa. Parto da una constatazione: il partito in cui bene o male mi riconosco (più male che bene) è sempre stato il PD. L'ho votato da quando esiste – 2008 – e non ha mai vinto le elezioni. Anzi, ha sempre perso. Nonostante questo ha governato il Paese quasi per un decennio. Sul serio. 

È rientrato nelle stanze dei bottoni col governo Monti (2011), il che ha portato la segreteria Bersani al disastro delle elezioni del 2013. Disastro che non gli ha impedito di mantenere il ruolo di primo partito nella maggioranza che ha sostenuto il governo Letta, il governo Renzi (2014) e il governo Gentiloni (2016). Al termine della legislatura, intaccato da una scissione a sinistra e consegnato dalle primarie a un leader ormai percepito come fallimentare, è sceso alle elezioni del '17 per la prima volta sotto il 20%, una batosta insopportabile per il partito che deteneva l'eredità morale dei due grandi partiti di massa del secondo Novecento. Ciononostante, e malgrado una seconda scissione, non gli è riuscito di stare lontano dal governo che per quindici mesi, gli unici quindici mesi in tutto il decennio 2011-2020 in cui il PD non ha dato alcun contributo al governo del Paese. Sono stati anche i quindici mesi più inquietanti della nostra storia recente, e il solo spettro di un secondo avvento di Salvini dovrebbe terrorizzarmi e spingermi a sostenere qualsiasi alternativa, un monocolore Di Maio, un governo tecnico Pippo Baudo. Ma ecco, ci credo davvero? A Salvini interessa così tanto governare? Mi pare che quanto gli interessi lo dimostrò ampiamente nell'estate del '19. E per quanto si sia attribuita la sua scelta alla tipica ebrezza del Papeete, è abbastanza plausibile che in quel caso Salvini abbia fatto una delle scelte più lucide e razionali della sua vita, ovvero mollare ogni responsabilità quando era ancora giovane e credibile, e in grado di riprendere l'unico mestiere che ha fatto in tutta la sua vita: l'oppositore da fiera, da agitarmi davanti ogni volta che non ho tanta voglia di votare l'ordine e la responsabilità.

Rispettoso, lusinghiero, il giudizio che si dà

Con questo non voglio dire che il sovranismo non sia ancora un pericolo concreto, ma tutti gli avvenimenti importanti del 2020 lo hanno oggettivamente ridimensionato: la Brexit non è un paradiso in terra, la pandemia non è che la prima emergenza planetaria che dimostrerà nei prossimi anni quanto siano anacronistiche e scomode le frontiere europee. Forse siamo in quella fase della partita in cui il pezzo più importante è già stato mangiato (magari era Trump) e il resto del gioco è un dettaglio. Anzi è possibile che i sovranisti in Italia e in Europa abbiano appena iniziato a formare quel partito di massa che nei prossimi anni si opporrà al partito della responsabilità e della pianificazione emergenziale; la massa c'è e non chiede ai suoi leader che parole di speranza, o al limite teorie del complotto immaginose e interessanti. 

Questa cosa Salvini la sa, Meloni la sa, e forse entrambi nel loro segreto tremano di fronte all'enorme responsabilità di guidare un popolo nel deserto. Perché di questo si tratta: di governare no, governare nei prossimi anni sarà complicato e faticoso. Il massimo contributo che possono dare è impugnare la fiaccola del sovranismo, tener buona la loro gente al calore di una speranza di rivoluzione che non si realizzerà mai – più o meno quel che fecero i quadri del PCI nel secondo dopoguerra, con qualche regione in più da gestire, che poi son carriere, affari, butta via. Governare però no: poi bisognerebbe una volta buona spiegare agli elettori se si esce dall'Euro o si resta dentro, se si è con Putin o con Biden, coi novax o coi nocovid, tutte partite ormai decise anche se i tavoli sono ancora ufficialmente aperti. Governare si è già capito che non vogliono e non possono. Quindi governeranno gli altri. Cioè?

Il PD?

Ma cos'è il PD ormai?

Pensate a quanti pezzi ha perso lungo il percorso – era il partito dell'area Prodi, per prima cosa mandò all'aria l'ultimo governo Prodi. Lo fondò Veltroni, uno dei risultati più concreti che raggiunse fu la fine politica di Veltroni (un risultato molto importante, sottolineo, anche dal punto di vista letterario, cinematografico, musicale). Era il partito di Bersani, che ci ha messo anche un po' ad andarsene; poi è stato il partito di Renzi, schizzato fuori pure lui. Al termine di tutte queste scremature, quel che rimane è un partito tranquillo, senza personalità di spicco; verrebbe da dire senza personalità e basta. Lo dirige un amministratore di regione, nel suo tempo libero: in questo periodo non deve averne molto. Si dà per scontato che sia composto da personaggi responsabili, e si chiude un occhio quando si mostrano non molto più avveduti degli altri. È insomma il partito adatto a quel tipo di maggioranza silenziosa che si forma alla fine della crisi, quando la gente è stanca di avventure: come gli elettori della Democrazia Cristiana dal 1948 al 1988. Può darsi che la situazione sia simile: che dopo aver provato Berlusconi, e Renzi, e Grillo, cominci a subentrare una certa stanchezza, una voglia di affidarsi non tanto all'uomo forte e neanche all'uomo competente, ma almeno tranquillo, in grado di dimostrare un minimo di serietà o almeno di simularla. Cosa che riesce più semplice se all'opposizione si rinchiudono in quel castello telematico di illusioni che Facebook, Amazon e Google stanno cominciando a smantellare, non un attimo prima di vedere come andava a finire Trump. Insomma i giochi sono abbastanza fatti, ognuno ha il suo ruolo, chi rimane fuori? Ah giusto.


I Cinque Stelle.

Ecco, vorrei dire che i Cinque Stelle sono la mia unica vera speranza, ma senza essere frainteso. Come amministratori sono stati disastrosi (ho in mente il mio ministro in particolare), né ci si poteva aspettare qualcosa di diverso da un partito che dell'incompetenza si faceva bandiera. Bisogna dire che la pandemia ha messo in crisi molto più la loro piattaforma che quella dei sovranisti. Erano il rifugio dei NoVax, ora la gente fa carte false per vaccinarsi: ma non è solo quello. Dovevano mandare a casa i politici (e l'hanno fatto), e ora si trovano al loro posto, costretti loro malgrado a fare politica. Non si può dire che ci stiano riuscendo: sinceramente, non si può. Ma alcuni a questo punto potrebbero farcela, e questa è l'unico margine di speranza che in questo momento riesco a intravedere. Da Salvini e Meloni so cosa aspettarmi: tanto fumo sovranista e postfascista che gli adepti inaleranno voluttuosamente, nella speranza che dia più torpore che nervosismo; dal gruppo Mediaset so cosa aspettarmi, anche oltre l'estinzione fisica del suo fondatore (un supporto mediatico ai sovranisti fin tanto che si tratta di tenerli incollati al televisore durante le pubblicità di dentiere e pannoloni, che si eclisserà parzialmente nei momenti di crisi, proprio come la Fox è mancata a Trump nel vero momento del bisogno). Dal PD so cosa aspettarmi: tanta pacata affettazione di competenza, sostenuta da quotidiani autorevoli che non legge più nessuno, stampati da industriali che in Italia non producono più quasi niente, ormai se ci spiegano come stare al mondo è davvero per uno stimolo disinteressato, un capriccio. Da Renzi so cosa aspettarmi: cercherà di attirare l'attenzione su di sé, prestandosi a maneggi vari senza nemmeno accorgersene, insomma era partito Kennedy ed è finito Pannella. Dalla sinistra extraparlamentare, in cui ideologicamente pure mi riconosco, so cosa aspettarmi: tante velleità, e mi dispiace. 

Da Di Maio, ecco, no. Non so veramente cosa farà, non so chi lo voterà e che motivi troverà per farlo. Di Maio (e i suoi compari) sono l'unica variabile che può cambiare davvero la situazione. Possono tentare di ricorrere Salvini sui terreni del sovranismo e perfezionare qualche nuova variante complottista: ma non è soltanto una strada perdente, è l'imitazione di una strada perdente. Oppure possono restare dove non avrebbero dovuto e voluto trovarsi: al governo, e crescere, alla ricerca di una via credibile tra populismo e democrazia. Questa via credibile, prima della pandemia non esisteva: ora la situazione è parecchio cambiata e nei prossimi anni cambierà ancora di più. Insomma dipende quasi tutto da loro, sono il vero ago della bilancia e sono dei maledetti incapaci – ma non sarebbero arrivati lì se non lo fossero stati – e proprio perché maledettamente incapaci, hanno enormi margini di miglioramento. Dopotutto it can't get much worse.

Mi accorgo che questo discorso – tirato in lungo apposta per allontanare il più possibile dei lettori dalla avvilente conclusione – sembra il tentativo disperato di vedere un bicchiere mezzo vuoto dove da un pezzo non c'è più non dico l'acqua, ma il bicchiere stesso; oppure il gesto disperato di chi trovandosi in un tunnel completamente buio, si strizzasse gli occhi per procurarsi qualche fotopsia e dirsi ecco, lo sapevo che c'è una luce in fondo. Scusate, questa crisi mi trova davvero nell'umore meno adatto.

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Alla fiera dell'est, per 2 ¥

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"..."
"Resisti".
"Non ce la faccio".
"Invece sì".
"Sei un adulto".
"Ma è troppo..."
"Una persona rispettabile".
"Mi scappa".
"Hai una dignità".
"LO SAPETE PERCHÉ ZAIA HA PAURA CHE GLI MANGINO I TOPI???"
"Me ne vado addio".
"PERCHÉ POI NON SA COME INGRASSARE IL GATTO AHAHAH".
"Non ci siamo mai conosciuti".


https://www.facebook.com/zaiaufficiale/photos/a.172472189621371/1048409992027582/?type=3&theater

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Anche Salvini, a Gerusalemme?

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[Questo pezzo ci ha messo un po', ma alla fine è uscito su TheVision]. Salvini è un troll. Qualsiasi cosa faccia, la fa per provocare una reazione, possibilmente rabbiosa o scandalizzata. Non è senz'altro il primo a portare nella politica l'antica arte della provocazione; però maestri come Berlusconi e Bossi praticavano il trolling per arrivare a un risultato – attirare l'attenzione, certo, ma anche innervosire gli avversari e lasciarli autoridicolizzarsi con reazioni scomposte. Salvini è un passo oltre: dai maestri ha appreso l'arte ma non il senso; e oggi che ha il campo libero, lo vediamo trollare non tanto per imporre un'agenda politica, ma piuttosto imporre un'agenda politica che gli permetta di trollare.

Questo andrebbe premesso a qualsiasi commento sui comportamenti di Salvini, sia che disturbi la gente al citofono accusandola di reati gravi sia che riconosca Gerusalemme come capitale di Israele (per citare due cose che ha fatto in una surreale settimana di campagna elettorale). Perché si comporta così? Perché è un troll. Vuole la nostra frustrata attenzione, e infatti eccoci qui: stiamo parlando di lui, forse ha vinto. Magari l'idea di un aspirante capo del governo che gioca a fare il Gabibbo ci fa infuriare, ebbene, Salvini voleva esattamente questo da noi, Salvini si nutre della nostra furia.

Quanto a Gerusalemme, è il classico esempio di minima spesa per massima resa. Riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato Ebraico è un gesto che non gli costa nessuna fatica e sarebbe gravido di conseguenze, se Salvini fosse al governo (si tratterebbe di tradire l'approccio UE al problema). Ma Salvini al governo più di tanto non riesce a starci: l'anno scorso è resistito fin quasi a Ferragosto perché in effetti un ministro degli interni a torso nudo al Papeete è ancora un po' provocatorio; ma non un minuto di più. E poi, certo, Salvini dimostra anche in questo caso l'allineamento della Lega alle posizioni del sovranismo europeo, che vede in Netanyahu un alleato in Medio Oriente, sì: ma davvero a Salvini premevano così tanto le sorti del Medio Oriente, e proprio la settimana scorsa? È difficile immaginare che la sorte della Spianata delle Moschee gli interessi più del centro di Bologna, dove le sue provocazioni ancora non sfondano, ma circola ancora qualche fuorisede filopalestinese in kefiah (il tizio ragiona per stereotipi un po' muffiti). Se solo si riuscisse a farli incazzare a portata di videocamera, magari in quello storico campo di battaglia tra via Irnerio e Piazza Verdi, che colpo sarebbe: che fantastico modo di terrorizzare i bolognesi benpensanti e mandarli a votare i candidati della Lega – e invece no, Piazzale VIII Agosto si riempie, ma di placide Sardine che di Gerusalemme non si preoccupano, come di tanti altri problemi.

A indignarsi rimane soltanto una piccola frangia di osservatori, per così dire, professionisti o appassionati; quei pochi che ancora in Italia si ostinano a considerare la marginalizzazione dei palestinesi un problema e non una soluzione. Combattuti, anche questi ultimi, tra la necessità morale di non prendere il troll sul serio e il richiamo della foresta, se non il fascino dell'abisso: perché ci sono livelli davvero sotto i quali nessuno era sceso, e Salvini li sta perforando in caduta libera. Cioè lui ha davvero cercato di rifarsi una verginità invitando a un convegno sull'antisemitismo Liliana Segre (che prontamente ha declinato l'invito). Salvini ha davvero spiegato a un giornale israeliano che l'antisemitismo, in Italia, lo hanno portato gli immigrati islamici – e questo malgrado l'osservatorio sull'antisemitismo continui a registrare con cadenza quotidiana episodi che hanno protagonisti dai nomi e dai cognomi italianissimi. Salvini, il più celebre tra i propagatori italiani di complottismi su George Soros, ha davvero affermato di non avere nulla a che spartire con l'antisemitismo di una "destra tradizionalista", e lo ha fatto proprio mentre il comune di Verona, con una giunta a trazione leghista, intitolava una via a Giorgio Almirante, fascista repubblichino e poi fondatore del Movimento Sociale Italiano. Magari ignorando in buona fede che la leggenda nera sul governo mondiale occulto del perfido Soros non è che la rielaborazione postmoderna di cose che nel 1938 si potevano leggere sulla Difesa della Razza, rivista ufficiale del razzismo fascista. Almirante era il segretario di redazione.

Qualcuno ha già rimarcato il cinismo con cui Salvini si è rivolto a Israele, mostrando di considerarlo, più che una nazione sovrana, un ente morale deputato a rilasciare "una patente di rispettabilità politico-religiosa". Certo, perché il giochino funzioni bisogna che dall'altra parte qualcuno si presti, e Netanyahu ha già dimostrato una certa disponibilità in questo senso: ha ricevuto Duterte, è andato a trovare Orban, perché non dovrebbe accostarsi a Salvini... [continua su TheVision

Per Netanyahu la Storia è subordinata alla politica: ogni nemico di Israele può essere paragonato a Hitler, se necessario (mentre paradossalmente Hitler può essere ridimensionato: non più ideatore della Shoah, ma semplice artefice dei piani genocidi del Gran Muftì). Netanyahu ha un'agenda, che a differenza di Salvini non si esaurisce nel vincere le prossime elezioni; da un punto di vista culturale, il suo obiettivo è includere nella definizione di antisemitismo qualsiasi forma di critica a Israele. Se vuole definirsi amico di Israele, Salvini non solo deve promettere di trasferire l'ambasciata italiana a Gerusalemme, come ha già fatto Trump; deve anche impegnarsi a chiedere "a Bruxelles" di proibire il boicottaggio dei prodotti israeliani. Promessa, quest'ultima, di molto difficile realizzazione: non solo perché Salvini a Bruxelles ci va il meno possibile, disertando in particolare qualsiasi riunione possa ottenere risultati concreti: ma soprattutto perché un boicottaggio è una forma di protesta non violenta e passiva. Certo, il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), può anche essere definito antisemita e messo fuori legge (se ne parla sia negli USA che in Germania), ma nessuna direttiva comunitaria può costringere i consumatori europei a comprare i pompelmi israeliani, se non li vogliono. L'obiettivo di Netanyahu è culturale: si tratta di convincere gli europei che chi non compra i pompelmi israeliani è antisemita, tanto quanto il complottista che ricicla i Protocolli dei Savi di Sion o il nazista che vandalizza i monumenti sulla Shoah.

Quello che a noi europei può sembrare una strumentalizzazione ha comunque un senso storico (e geografico). Netanyahu è il primo ministro di un Paese che vive il ricordo della Shoah in modo sensibilmente diverso da come lo si percepisce in Europa. Per noi europei il 27 gennaio è la ricorrenza annuale del senso di colpa collettivo, il giorno in cui ricordiamo di essere portatori neanche troppo sani di malattie che hanno sconvolto il mondo: nazionalismi, fascismi, xenofobia. Gli israeliani non possono e non devono viverlo con lo stesso senso di colpa: il loro 27 gennaio (che quest'anno celebreranno ospitando delegazioni di 50 Paesi) non può che confortarli nell'idea che se 80 anni fa fosse esistito Israele, la Shoah sarebbe stata impossibile. Questo può spiegare perché per un sionista come Netanyahu la memoria della Shoah combaci totalmente con la difesa a oltranza delle politiche di Israele. Un po' meno spiegabile è che un aspirante leader di una nazione come l'Italia si presti senza un plissé a fargli da megafono: Netanyahu vuole i BDS fuori legge? Salvini andrà a Bruxelles a chiedere i BDS fuorilegge. E tutto questo, badate bene, dopo aver sibilato per anni contro i politici europei servi di una fantomatica lobby ebraica. Un bel paradosso, se solo se ne fosse reso conto. Ma anche se se ne fosse reso conto, non ha molto senso mettere Salvini di fronte alle sue contraddizioni. In fondo, ricordiamolo, non è che un troll.

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L'Emilia-Romagna non esiste (ma resiste)

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[Questo pezzo è stato scritto ieri ed è uscito su TheVision]

Oggi non è una brutta giornata. Ovvero: se do un'occhiata dalla finestra, l'Emilia-Romagna continua a sembrarmi la stessa regione inquinata e decadente di ieri. I problemi sono ancora tutti lì esattamente dove erano sabato, e in parte si tratta di problemi che Stefano Bonaccini non risolverà, perché l'Emilia-Romagna alla fine è semplicemente un pezzo d'Italia, d'Europa e di mondo, ritagliato in modo anche abbastanza casuale.

In alcune zone di questo pezzo d'Italia, la propaganda salviniana funziona, ed è facile notare che sono le zone periferiche di un tessuto che progressivamente si sta trasformando in una grande periferia. I centri resistono, ma sono sotto assedio: oppongono un modello ma non riescono più a irradiare un messaggi alternativi a quelli declinati dalla Mediaset e dalle sua varianti; già prima di arrivare alle tangenziali i discorsi nei bar cominciano ad assomigliare agli stessi discorsi che puoi sentire a Varese, Viterbo, Vibo Valentia. Bibbiano perde i contorni di placido comune in provincia di Reggio nell'Emilia e diventa un campo d'internamento dove bambini rasati venivano sottoposti a elettroshock da assistenti sociali satanisti.

Ma non si tratta soltanto di una gara a spararla grossa (che Salvini comunque era determinato a vincere). Nelle zone montane, in certa Bassa, nelle new town fungate sulle strade statali, Salvini vince come vince il Capo Indiano che chiama a raccolta i nativi messi ai margini dall'avanzata del progresso. Nelle zone industriali dove un capannone su due è una carcassa di cemento, nella riviera che non è soltanto Rimini e Riccione ma migliaia di pensioncine a trazione famigliare che la Croazia spazzerà via, Salvini non vince soltanto perché racconta cazzate. In un certo senso, non è il solo che le dice. In un tessuto sociale che ha smesso da un pezzo di essere competitivo, e mese per mese assiste al suo stesso smembramento, anche chi continua a raccontarci che siamo la terra delle Ferrari, di Farinetti, di Fellini, a volte non ha percezione di quanto ci stia ammorbando di chiacchiere. Modena era una realtà industriale quando c'erano le fonderie, e la Ferrari era poco più di una fabbrichetta – famosa in tutto il mondo ma abbastanza marginale. Ora al posto delle fonderie c'è il museo Enzo Ferrari ma non creerà mai la stessa ricchezza, non è che puoi davvero pensare di sostituire lo storytelling all'acciaio. C'è un limite oltre il quale anche la narrazione delle eccellenze diventa un tormentone non molto meno tossico dell'elettrochoc di Bibbiano, e oltre quel limite perché Matteo Salvini non dovrebbe vincere? Perché non dovrebbe raccontare che l'euro ci sta strangolando, che negli anni Ottanta si stava meglio, che l'immigrazione abbassa il costo del lavoro? È una visione superficiale, ma non più superficiale di quella che propone di risolvere tutto con l'auto di lusso, l'abbigliamento di lusso, la ristorazione di lusso.

(Mesi fa il sindaco di un piccolo centro sull'appennino parmense scrisse una circolare ai genitori degli studenti, chiedendo per favore di non ordinare lo zaino scolastico su Amazon ma di comprarlo nell'unica librocartoleria superstite. Dalla stampa nazionale insorse un editorialista progressista: ma come! Ai ragazzi bisogna insegnare a eccellere, a studiare, a diventare Bezos, non a combatterlo. Sì, in pratica bisogna insegnare ad andarsene dall'appennino, un luogo dove tenere aperta una libreria è ormai un eroismo inutile). (L'editorialista in questione non è cresciuto in appennino ma in una redazione; è figlio di un altro editorialista, perché raccontare i pregi della meritocrazia è un'arte che in Italia non s'impara in una generazione).

Però alla fine oggi non è una brutta giornata, dai. Si è alzata anche la foschia, ora splende il sole, l'aria continua a essere tra le più carbonate sul pianeta, ma non si può pretendere. Di tutto aveva bisogno questo pezzo d'Italia tranne che di un'altra gang di amministratori incompetenti e parolai. La maggior parte degli elettori del vecchio bacino emiliano 5Stelle ha deciso, di fronte a un bivio, che la direzione indicata da Salvini non era praticabile: non era affatto scontato. E soprattutto abbiamo dimostrato che un certo tipo di campagna elettorale non funziona ovunque, e quindi alla lunga non funziona. Da questo punto di vista bisogna ringraziare Salvini, proprio perché in quest'occasione ha dato il peggio di sé e ci ha dato un'occasione gloriosa per dimostrare che Salvini, anche nella sua versione peggiore, non è sostenibile. Non vince neanche se fa il Gabibbo, non vince neanche se fa Cronaca Vera (il martellamento ossessivo su Bibbiano), non vince a imbucarsi in qualsiasi sagra, ad afferrare un prodotto gastronomico e a spararsi un altro selfie con quei poveri sostenitori che ormai in memoria hanno più faccioni di Salvini che foto dei figli. Dopo Craxi, dopo Renzi, Salvini è l'ennesimo avventuriero che due o tre battaglie hanno illuso di poter conquistare almeno mezza Italia: è senz'altro bello pensare che si sia dovuto fermare sul Taro. Significa che l'Emilia rossa resiste? Anche l'Emilia rossa è storytelling. Comunista in senso stretto non lo è mai stata: forse le è capitata in sorte una classe dirigente un po' più pratica, un po' più onesta, ma quello che vedo io dalla finestra è un pezzo d'Italia individualista e frustrato che un candidato di centrodestra decente lo voterebbe. È da almeno vent'anni che lo implora: un candidato liberale, pragmatico, amico delle piccole medie imprese o di quel che ne resta. Ecco, questo candidato la destra italiana non ha mai voluto proporlo. Sia Berlusconi ieri, sia Salvini oggi, si sono sempre lasciati incantare dal mito della fortezza rossa da espugnare con gli slogan e le recriminazioni identitarie: non hanno mai pensato di proporre una vera alternativa a livello di amministrazione, forse semplicemente perché non era disponibile o credibile. Il giorno che lo sarà, qualcosa mi dice che l'Emilia smetterà di essere rossa nel giro di poche ore. Ma è una prospettiva lontana, lontana. Il centrodestra che tira è il centrodestra che la spara più lunga, tant'è che al declino della stella di Salvini sta iniziando a sorgere quella di Giorgia Meloni. Le chiacchiere che producono funzionano in tv, funzionano sui social, funzionano in tante edicole e bar, ma non ti fanno vincere le elezioni, perlomeno tra Taro e Rubicone. È una bella giornata oggi, dai.
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Caro elettore (emiliano) di sinistra

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Ciao, come va? È da un po'.
Esatto, sì, sto per fare quella cosa.
(Sono più imbarazzato di te, credimi).

Domenica come senz'altro sai si vota in Emilia-Romagna, e la coalizione di Bonaccini (PD e altre liste di centrosinistra) potrebbe anche non farcela. Questo non sarebbe necessariamente la fine del mondo in regione: in Emilia-Romagna direi che dopo 50 anni un po' di alternanza potremmo anche permetterla, giusto il tempo di dimostrare l'incapacità del centrodestra locale. La vittoria della Lega salviniana però potrebbe innescare una reazione a livello nazionale, con conseguente crisi del governo e fine della legislatura proprio nel momento in cui finalmente in parlamento si cominciava a parlare di una legge elettorale proporzionale e decente (una legge che potrebbe riportare anche la sinistra in parlamento). E quindi?

E quindi, indovina: sto per chiedere il tuo voto utile. Lo so che Bonaccini non ti piace, e posso anche capire i motivi per cui, da una prospettiva di sinistra, non rappresenta quasi nulla che possa piacerti. Cioè non voglio neanche provare a indorarti la pillola, ok? Anzi, sinceramente considero la sua proposta di autonomia regionale una roba da leghisti, e forse invece di scrivere questo pezzo dovrei scriverne uno per convincere i leghisti a votare Bonaccini. Se avessi il bacino di utenza adatto lo farei. Ma è più facile che mi leggano a sinistra, e quindi caro lettore, eccomi in ginocchio da te: per favore, riflettici. Vale davvero la pena di regalare una chance a Salvini, e qualche anno di amministrazione regionale a chi fa campagna elettorale con le magliette su Bibbiano?

Non potrebbe essere l'occasione per stabilire che no, che questo tipo di campagne elettorali da Cronaca Vera non funzionano – perlomeno da noi? Pensa che precedente sarebbe, caro elettore di sinistra. Un tizio cerca di vincere le elezioni battendo ogni mercato, ogni stand gastronomico della regione con la sua scorta, senza argomenti che non siano recriminazioni e selfie, e malgrado ospiti televisivi e influencer non riescano a parlare di altro... perde. Non sarebbe già un risultato importante?

E se invece vince, non sarebbe un po' la fine della democrazia? Cioè una volta che hai dimostrato che le elezioni le vinci andando a disturbare la gente col citofono, che si fa?

E quindi caro elettore credo che dovresti davvero provarci, stavolta. Anche se.

Anche se sono il primo a trovare la cosa un po' sospetta. Ancora una volta uno scontro finale. Ancora una volta le forze del Male stanno per trionfare e l'unica speranza è spostare una manciata di voti sulle forze del Meno Peggio. È da più di vent'anni che funziona così – ieri era Berlusconi, oggi Salvini, c'è sempre un altro piccolo sforzo da fare, c'è sempre un cattivo da abbattere, c'è sempre un motivo per mettere da parte le proprie ragioni e le proprie necessità. E c'è sempre qualcuno (e a volte sono stato io) che ti chiede di metterti la mano sul cuore e di sacrificare le tue esigenze di elettore, sempre e solo le tue, e perché? Perché è in gioco qualcosa di più importante, il destino dell'Italia, dell'Unione, e del mondo, e vuoi sapere una cosa buffa? Ci credono.

(Io perlomeno sono abbastanza persuaso che l'ascesa di Salvini rappresenti un concreto peggioramento per l'Italia, per l'Unione Europea, e per tutto il quadro internazionale, e sarei veramente molto orgoglioso se la mia regione domani gli desse una spallata fatale – mentre al momento sono abbastanza inorridito dalla prospettiva che gli fornisca la spinta che gli manca).

Quindi mettiamo da parte ancora una volta le obiezioni, anche legittime, al nostro modello di sviluppo. Mettiamo da parte l'ambiente, le politiche per la casa, le rivendicazioni dei lavoratori anche quando sono represse dalla polizia, e quell'oscenità che sono i Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Insomma lasciamo da parte tutte le lotte sacrosante di una sinistra che osi ancora definirsi tale sul territorio, e concentriamoci sull'ennesima battaglia decisiva, che anche qualora si rivelasse davvero decisiva, non sarà comunque quella finale, no? Comunque non pensiamoci, c'è la possibilità di mandare Salvini nella polvere (o sugli altari), tutto il resto passa in secondo piano. Caro elettore di sinistra, a questo punto tu giustamente mi domanderai:

E se fosse solo un fantoccio, Salvini?

(Lo ammetto, anche a me il dubbio viene).

Una caricatura di nazista, un Mussolini versione farsa, un Berlusconi in sedicesimo perfino. Uno che in realtà il potere non lo vuole – quando gli è capitato, se n'è proprio liberato alla prima occasione – e che ora serve proprio come spauracchio per tenere uniti tutti quanti contro di lui. In tempi ancora di maggioritario, mentre tutti aspirano al 51%, forse l'obiettivo di Salvini è il 49%: quel che gli serve per essere sempre minaccioso, sempre sulla cresta dell'onda, sempre in tv e sui social, ospitate, libri, la scorta. Guarda, non escludo affatto che alla fine Salvini non sia che questo. Uno messo lì per catalizzare il malcontento e interpretarlo nella forma più trucida e impresentabile. È una possibilità. Ugualmente, preferirei che i suoi candidati non vincessero, domani.

Caro elettore di sinistra, dovrei tagliarla qui. Più scrivo, meno divento convincente. Ti faccio una proposta un po' più pratica: dà un'occhiata al programma di Emilia Coraggiosa, la lista pro Bonaccini di Elly Schlein (già europarlamentare con Possibile). Misura col tuo giudizio quanto sia meno di sinistra rispetto a quella, mettiamo, di Potere al Popolo. Poi vota per chi ti va, davvero. Ma se scegli di votare per una lista collegata a Bonaccini, e Bonaccini si ritrova per altri cinque anni in Regione, ti prometto che almeno da parte mia non saranno altri cinque anni passati a farmi i cazzi miei mentre il territorio si cementifica, l'ossigeno scompare, gli operai vengono processati perché scioperano. Ti sto chiedendo il mio voto? Ti offro il mio tempo e il mio spazio. Ogni volta che Bonaccini ti farà incazzare, potrai scrivermi e io mi preoccuperò, per quel che posso, di dare risonanza alle tue istanze e alle tue incazzature. Non è molto quel che posso offrirti – ma non è neanche molto quel che ti chiedo: una croce su un simbolo e su un candidato. E poi domenica vada come deve andare, una cosa buona è che almeno non ce lo troveremo più in piazza a spararsi selfie davanti a uno stand di salumi. È finita, almeno la campagna è finita. Ci vediamo.

PS: lascia stare il voto disgiunto, è una cabala.
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Lettera aperta a Lucia Borgonzoni, su Bibbiano e sull'aria che c'è

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Senatrice Borgonzoni,
sono un elettore emiliano e fino a poco tempo fa non credevo che l'avrei mai disturbata. Poi ho letto che andava a Bibbiano, ed era molto felice e orgogliosa di andarci, e forse per una coincidenza l'ho letto proprio nel giorno in cui nella mia città il livello di polveri sottili doppiava la soglia massima consentita per legge – la nostra aria è una delle meno respirabili del mondo, come lei ben sa. Io stesso mentre le scrivo sento un po' bruciarmi gli occhi, e i bronchi un po' ruvidi, e all'uscita da scuola vedo un po' troppi bambini tossire – magari è autosuggestione, senatrice, ma insomma in questi giorni mi sembra che mi manchi l'aria e nel frattempo leggo che lei sarà a Bibbiano, non vede l'ora di esserci a Bibbiano, perché è molto preoccupata dei fatti di Bibbiano, e non si darà pace finché non sarà fatta completa luce sui fatti di Bibbiano.

Senatrice Borgonzoni, allora, deve sapere che oltre a essere un elettore sono un papà, e in quanto tale molto turbato da quanto successo a Bibbiano, e anch'io non vedo l'ora che i magistrati facciano completa luce sui fatti. Per cui volevo chiederle, insomma: una volta eletta alla presidenza della Regione Emilia-Romagna, in che modo esattamente potrebbe aiutare i magistrati a fare luce eccetera? Perché è da un po' che ci penso e giuro, non mi viene in mente – sarà la mia mancanza di fantasia. Cioè, non è che un presidente di regione non abbia niente da fare tutto il giorno, eh? Ci sono tutti i problemi del territorio, la viabilità che potrebbe essere molto, molto migliore di così; i rifiuti, l'urbanistica, e l'aria, mi scusi se insisto sull'aria, ma a volte mi sento quasi soffocare, ho pena per i miei figli e i loro compagni, e in mezzo a tutto questo sento che lei è molto preoccupata per Bibbiano. Del resto la prima volta che ho sentito parlare di lei è proprio perché si era infilata una maglietta su Bibbiano in Senato, e le confesso che ho la sensazione che alla fine Bibbiano per lei sia un po' quella cosa lì: una maglietta da infilarsi davanti alle telecamere. E che anche i problemi della regione per lei siano quella cosa che si può risolvere con una maglietta (e una telecamera).

E allora mi corregga se sbaglio, senatrice Borgonzoni, ma la sensazione che mi sono fatto di lei è che dei bambini di Bibbiano, e della loro oggettiva sofferenza, le freghi tanto quanto della salute dei miei bambini, e di quelli di tutta la nostra inquinatissima regione: cioè un bel niente, senatrice. Bibbiano per lei è solo la quinta per una passerella; se qualcuno ha commesso dei reati indagheranno i magistrati, non lei. Se qualcuno è colpevole lo stabiliranno i giudici, non lei. Lei chi è in tutta questa storia tremenda? A occhio mi sembra una a cui hanno dato una maglietta da infilarsi. Una maglietta tra l'altro assai poco improvvisata, una maglietta coordinata, prodotta già in serie in pochi giorni, con uno slogan coniato all'improvviso e propagato immediatamente da lei e da tutti le bocche da fuoco della propaganda salviniana (nonché da qualche fascista).

Ok senatrice, siete stati bravi: ma in quanto elettore, e più in generale persona che tende a respirare nell'Emilia Romagna, mi domando se questa abilità con le magliette, con gli slogan, con gli hashtag, con le faccine sempre sorridenti anche mentre spalate merda sugli avversari politici e sui semplici cittadini... sinceramente mi domando se tutta questa vostra capacità di macinare propaganda 24 ore al giorno sia quel tipo di abilità che serve nei palazzi della Regione. Prendiamo un problema base, ad esempio (scusi se insisto), l'aria. Cosa ha intenzione di fare per l'aria, che tra un po' non sarà respirabile? Sono andato a cercare il suo programma, che in mezzo a tutti i volantini e le news e le faccine e le magliette è abbastanza difficile da trovare, e scritto molto in piccolo. E dunque alla voce "Qualità dell'aria", si legge che "le rilevazioni degli ultimi anni non sono certo clementi con il livello di qualità dell'aria nella Pianura Padana" (io qua ci sento un po' l'insofferenza verso queste "rilevazioni", maestri severi che avrebbero anche potuto chiudere un occhio e invece no). Ma si legge anche che "le misure messe in campo fino ad oggi hanno prodotto risultati importanti [??? risultati importanti??? abbiamo le polveri sottili al doppio della soglia massima!] ma spesso sono state altamente impattanti per i nostri concittadini".

C'è scritto così: altamente impattanti. Non è chiaro a cosa si riferisca: le traumatiche domeniche senza auto, i centri chiusi alle Euro4? O al supplizio esistenziale di dover differenziare l'umido? Una rottura senz'altro, ma senatrice, se penso a una cosa un po' impattante sulla mia vita di emiliano, penso alle malattie polmonari a cui mi sto esponendo soltanto perché mi è capitato di nascere e abitare qui. E avere figli qui; figli che respirano un'aria che li condanna a una maggior incidenza di malattie polmonari. Questo è impattante, senatrice. Questo è un problema che vorrei porre in sede regionale e nemmeno mi aspetto risposte facili: so che non ci sono. Però, vede, anche solo provarci a volte aiuterebbe – metta il suo concorrente, Bonaccini: lui che pure ha la sua parte di responsabilità per questo stato di cose, sul programma ha quattro milioni e mezzo di alberi in più, bum. È fattibile? Almeno si pone il problema. Energie rinnovabili al 100% entro il 2035, dice. Si può fare? Non ne ho idea, e neanche lei ce l'ha, non ne parla. Il resto del suo paragrafo sull'ambiente serve a rassicurare i contribuenti sul fatto che non vuole chiedere tasse in più per l'ambiente, ma magari incentivare gli imprenditori che rinnovano il parco macchine. Con vetture elettriche? Ah ah ah – non necessariamente, no. Insomma senatrice a lei dell'aria interessa poco ed è comprensibile, fin qui agli emiliani premevano davvero più le tasse che la qualità dell'aria. Non credo però che si possa andare molto più avanti di così in questa direzione – e inoltre le vere tasse le decidono a Roma, via, non è che possiamo prenderci in giro anche su questo.

Senatrice non ce l'ho con lei, per quanto speculare sulle tragedie famigliari dei bambini di Bibbiano sarebbe in effetti un motivo più che sufficiente. Il suo mentore che in queste ore chiede di essere processato perché secondo lui ha difeso il popolo italiano – bloccando un centinaio di naufraghi su una nave, secondo lui i popoli si difendono così – il suo leader, dicevo, una volta ha osato accennare al fatto che bisognava portare in Emilia-Romagna il modello veneto. Magari non proprio il modello tangentaro con cui il centrodestra ha gestito il Mose, ma effettivamente anche in Emilia si potrebbero incentivare un po' più le aziende, senza troppi lacci e lacciuoli, non c'è dubbio. Proprio in questi giorni abbiamo scoperto che in trenta comuni tra le province di Verona e Vicenza il 60% dei 300 mila abitanti ha il colesterolo sballato, a causa dell'inquinamento industriale – gli acidi perfluoroacrilici immessi nella falda acquifera dalla Miteni di Trissino. Gli esperti ritengono che questi acidi possano favorire lo sviluppo di malattie alla tiroide, nonché compromettere la fertilità che so che è una cosa che anche a voi sta molto a cuore. Inoltre c'è una possibile relazione con l'insorgenza di forme tumorali, e stiamo parlando di un problema per quasi duecentomila cittadini veneti di ogni età, bambini compresi, ma certo capisco che far luce sul problema, e chiedere che i responsabili paghino, non possa essere la priorità per lei o per un partito come il suo, così attento alle esigenze degli industriali anche quando ci ammazzano neanche troppo lentamente. Continui pure a parlarci di Bibbiano, magari voteremo per lei. Magari ci piace davvero essere presi in giro mentre soffochiamo. Non lo escludo, peraltro è noto che l'aria viziata toglie lucidità. Con l'espressione della mia più profonda disistima, suo Leonardo.
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Cronache dalla campagna

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(Qui intorno era ancora tutta Emilia-Romagna, nell'anno del Signore 2020)


– Avrete notato che è da un po' che non ci sono terremoti in zona Cavezzo, né inondazioni dalle parti di Cavezzo; in compenso l'altro giorno è caduto un meteorite nella campagna di Cavezzo. Le possibilità di trovarlo erano abbastanza basse: e invece l'hanno trovato. È una pietra superficialmente molto nera, l'istituto astronomico ha detto che la chiamerà Cavezzo. Qualcosa del genere è probabilmente successo alla Mecca migliaia di anni fa.


– Il giorno dopo Matteo Salvini lascia detto che verrà a Modena, una città dove fin qui ha fatto un po' fatica a entrare. Andrà a prendere una birra in via Gallucci; gli scappa anche il nome della birreria ma forse non si era inteso bene con il suo impresario, qualcuno si era dimenticato di avvisare il gestore e forse nel nuovo cerchio magico manca un certo tipo di know how, sono bravissimi a pigolare su twitter ma non sanno come rapportarsi con gli esercenti modenesi, il che d'altronde non sorprende. La prima reazione del gestore in questione è infatti annunciare sui social: noi non facciamo politica, ma se viene Salvini siamo in ferie. Simpatég, eh? Il gestore, come chiunque non viva almeno tre ore al giorno sui social, sottovaluta il clima della campagna elettorale: dopo essere stato investito da commentatori ostili che minacciano il boicottaggio si ravvede, e alla fine Salvini ce la fa: entra nel locale, si fa un selfie con la birra in mano tra gli avventori – pochi, perché nel frattempo via Gallucci è stata blindata dalle forze di polizia, in stile corteo di Forza Nuova. Poi già che c'è entra anche in un altro pub, storicamente caro a me e a tutta la mia cerchia (ma ho smesso di bere il primo gennaio, quindi neanche posso boicottarlo): e anche qui selfie e sorrisoni coi gestori. Anche passando a Carpi del resto aveva fatto in modo di farsi trovare proprio davanti alle bancarelle della fiera del cioccolato.


– Il fatto che Salvini si faccia molto spesso inquadrare mentre mangia e beve ha fin qui generato più parodie che riflessioni (come qualsiasi altro fenomeno al mondo, sospetto, e questo malgrado sia più facile riflettere che scrivere battute divertenti). È un'intuizione che parte da lontano (anche Renzi veniva talvolta descritto come in preda a un'infantile bulimia) e si affina negli anni passati a fare campagna elettorale e poco altro. Senz'altro è un espediente efficace per ridurre la sua distanza col cittadino medio, ma è anche una conseguenza diretta del fatto che molto spesso la gente è già lì per bere e per mangiare, sennò Matteo Salvini neanche si scomoda. Poi certo, ogni tanto fa pure dei comizi, però in molti casi l'approccio di Salvini alla folla è parassitario: non è lui a radunarli, lui si fa trovare in un posto dove ci sono già, e siccome di solito sono lì per mangiare, Salvini deve mangiare. Nella maggior parte dei casi va tutto bene, al limite c'è da gestire qualche contestatore ma la maggior parte della folla è comunque contenta di trovarsi vicino a una celebrità, proprio come quando passa un calciatore o il tale che ha fatto un reality. A volte qualcosa va storto (a Modena, tipicamente) e allora o si molla l'osso, come a novembre, in cui si riparò fuori dal centro sardinizzato. Oppure si militarizza l'area, perché quel selfie col boccale in mano evidentemente è importante, chissà quanti voti pesa.

– Salvini le elezioni in Emilia-Romagna potrebbe anche vincerle. Lo dico, ovviamente, per dimostrarmi attento alla situazione e consapevole della distanza tra desideri e realtà: è il senso di ogni rituale scaramantico. Ma lo dico anche perché alla fine la possibilità c'è, e non ha a che vedere più di tanto con la fine del cosiddetto modello emiliano, che è in crisi già da anni, per motivi strutturali che sono gli stessi per cui è in crisi il modello padano, e l'Italia, e l'Europa il genere umano l'ecosistema. Salvini le elezioni in E-R potrebbe vincerle banalmente, perché ci tiene davvero, e non ha niente da fare tutto il giorno tranne battere la campagna, e soprattutto ci tengono i suoi fan, polarizzati e nervosi come non mai. Non è che siano la maggioranza (non in E-R, di certo), ma hanno una voglia di andare a votare che schizza da tutti i pori, mentre cinque anni fa il Pd di Bonaccini vinse con un'astensione altissima. Una tornata elettorale sui generis, in una stagione diversa dal solito, senza copertura sui media nazionali rischierebbe di premiare più le minoranze polarizzate che il famoso centro moderato. I salviniani hanno voglia di votare e sanno anche per chi voteranno; i grillini potrebbero davvero, quella domenica, svegliarsi depressi e restare in pigiama; le sardine sono state importanti da un punto di vista mediatico (sono state loro a comunicare al mondo che c'era un'elezione importante in arrivo), ma se da riempitori spontanei di piazze diventano testimonial di un partito preciso, rischiano di bruciarsi. Quanto agli elettori del PD, stanno semplicemente invecchiando. Salvini le elezioni in E-R potrebbe vincerle perché c'è gente che le perde da cinquant'anni e scalpita, e si venderebbe al diavolo purché fosse la volta buona. Dove "vendersi al diavolo" è una simpatica iperbole che temo non renda l'idea. Mettiamola così: è gente che pur di vincere voterebbe per Matteo Salvini.

– Il quale Salvini ormai non ha neanche nulla da promettere – nessuna promessa che non abbia già bruciato nei mesi di governo – toglierà le accise? uscirà dall'euro? chiuderà frontiere che peraltro non erano molto aperte neanche prima e non si sono aperte dopo? Nulla, non ha più nulla da promettere che non sia un altro anno fighissimo che passerà a spararsi selfie e streetfood. Berlusconi almeno era una figura aspirazionale, il milionario fatto da sé; Salvini è una figura tribale, un feticcio, nessuno spera di diventare come lui, è lui che si sforza di diventare come tutti noi. Mette le felpe, guarda i cantieri, mangia i panini, è un Checco Zalone senza ironia, il vicino di casa un po' scemo che mette allegria e anche quando la spara grossa sai che non lo fa per cattiveria, è il suo modo di reagire alle difficoltà, di tenersi a galla. Tutto questo non lo rende veramente un leader credibile, ma se per questo neanche Trump: evidentemente c'è gente disposta a credere a qualsiasi cosa, succede quando le prospettive sono molto brutte. Salvini a livello nazionale in realtà starebbe anche declinando: l'unico evento che potrebbe rimetterlo rapidamente in sella è una storica vittoria in Emilia-Romagna, e questo rende particolarmente surreali queste elezioni invernali – da una parte le forze del Caos, dall'altra Stefano Bonaccini. Che senso ha.

– Non ha nessun senso, io abolirei le regioni. Non si riesce a parlare di politica locale, non si riesce a valutare un'amministrazione, ci si riduce sempre a una specie di Risiko in cui l'importante è conservare o perdere un territorio. Come quella volta di Emilio Fede con le bandierine (quanto sono vecchio dio mio), o Renzi che diceva: dobbiamo vincere otto a due! e non era nemmeno più importante quali fossero le otto e quali le due, il Molise valeva quanto la Puglia, l'importante è il punteggio, la fatica che si fa a interpretare la realtà quando sei abituato per cultura e inclinazione a osservarla come un gioco, le cui regole arbitrarie diventano leggi fondamentali della natura e il Molise da bizzarria statistica si trasforma in ente reale, dotato di volontà politica e diritto a esprimere tot senatori. Salvini potrebbe vincere proprio perché se si tratta di giocare, non c'è avversario più temibile di un ragazzino con tanto tempo libero. Motivi per votare il centrosinistra: dal dopoguerra in poi ha espresso una classe dirigente che ha saputo amministrare il territorio, con alti e bassi, e inevitabili opacità e collusioni che è quello che succede quando per cinquant'anni nessuno ti scalza dalle posizioni di potere. Motivi per votare Salvini: stiamo arrivando! rrrrruspa! vi mandiamo a casa!

– Alcuni ne sono convinti. Ci sono intere categorie che si stanno radicalizzando, non credono nella fine dei tempi o nell'avvento del Califfato, ma nel secondo avvento di Matteo Salvini, con lui la piccola media impresa rifiorirà (pur restando piccola e media) e le partite Iva troveranno nel regno dei cieli un senso al loro lungo patire sulla terra. Non fosse un'elezione decisiva – l'ennesima elezione decisiva, l'ennesima ultima battaglia contro le forze del Caos – verrebbe voglia, davvero, di aprire la diga e amen, volete la bandierina? Tenete la bandierina. Giusto per offrirvi un'occasione in più per scoprire che non succede niente, nessuna diabolica coop rossa viene espulsa dal territorio, le strade rimangono storte e i fiumi non smettono di andare in piena. Che è successo a Parma quando ha vinto il centrodestra? Dopo un po' hanno dovuto commissariare il comune per banali questioni di tangenti, tutto qui. Che è successo a Bologna, a Ferrara? Le partite Iva stanno meglio? La camorra ha smesso di infiltrarsi? I nomadi hanno spostato il campo nomadi dall'altra parte di un canale di confine, il che qui da noi è molto spesso il modo in cui si risolve la terribile emergenza nomadi? Davvero, mi verrebbe da dire, mettiamoli alla prova, vediamo il loro bluff, dopo cinquant'anni sarebbe anche ora. Poi mi ricordo che se vincono stavolta casca il governo, l'Europa è a un bivio, il mondo fronteggia l'estinzione di massa. Nel frattempo mi arriva una notifica, a Cavezzo è caduto un meteorite. E quindi niente, andiamo avanti così. I salviniani d'Emilia e Romagna saranno pure ridicoli nella loro attesa messianica, ma prima o poi chi chiama l'apocalisse ci azzeccherà. Preferirei non essere io, ma
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In Emilia non sta succedendo niente?

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Circolate, non c'è niente da vedere
Vorrei riuscire a scriverlo senza nessun intento polemico nei confronti delle adunate delle Sardine – perché davvero, settemila persone che sotto la pioggia di questi giorni decidono di scendere in piazza contro Salvini non sono affatto una cattiva notizia – ma qualcuno dovrà pure scriverlo: settemila persone furiose contro Salvini non sono nemmeno una notizia, a Modena.

Nel centro di una città universitaria, di una provincia con una delle più alte percentuali in Italia di residenti di origine non italiana: e ciononostante, nessuna impennata nella criminalità: un luogo dove anche un opinionista tremebondo alla Rampini la sera non solo non avrebbe paura a circolare, ma diciamolo, si annoierebbe parecchio; che settemila persone si diano appuntamento anche in una serata così fredda e umida è cosa che fa piacere, ma stupisce? Si sa che poi in amore e in campagna elettorale tutto è permesso, e se c'è la possibilità di incorniciare un frame in cui Salvini finalmente diventa l'antipatico rosicone, tanto meglio. A Modena lunedì non è neanche voluto entrare, si è fermato ai margini: meglio così. Ma non significa che in febbraio non possa vincere in Emilia-Romagna, anzi. Dipende da quanta gente andrà a votare, e da questo punto di vista lasciate perdere i sondaggi: si tratta di un vero mistero.
Morisi la sta prendendo bene,
da consumato social media manager
quale egli è
Le ultime elezioni per la Regione Emilia-Romagna si celebrarono cinque anni fa, e oltre alla consueta (ma non scontata) vittoria del centrosinistra, registrarono un dato realmente bizzarro: un'affluenza alle urne bassissima. Fino a quel momento l'Emilia era considerata una delle regioni in cui si votava di più. Cinque anni fa erano già stati fatti tutti i discorsi sulla stanchezza del centrosinistra locale, sul lento declino della sua classe dirigente-digerente, sull'inevitabilità del tracollo di quella che solo da molto lontano, e attraverso lenti opportunamente deformate e colorate poteva ancora essere vista come una regione "rossa". Poi si andò alle urne e Bonaccini (PD) surclassò il suo contendente 50% a 30%: tutti i discorsi sull'inevitabile declino ecc. furono messi nel cassetto, ed eccoci qui. Cos'è cambiato in cinque anni? Quasi niente, direi io, ma è un effetto dell'età: il 2014 mi sembra ieri. La società post-industriale è rimasta post-industriale, la crisi in certi comparti non è finita, il livello delle acque è sempre più allarmante e i mezzi per correre al riparo non sono tutti a disposizione di Bonaccini.

Temo che la vera differenza tra il 2014 e il 2019 non abbia molto a che vedere con le istanze del territorio, ma con i cicli della politica italiana che vista da qua sembra una specie di carrozzone che si ferma ogni tanto, un Cantagiro: il 2014 era l'anno di grazia di Renzi, il 2019 è l'anno della caduta di Salvini. Già nel 2014 i politici locali si erano ridotti a chiamare Renzi, per cercare di fare notizia su tv e quotidiani (anche solo di informare gli elettori sul fatto che in novembre si votava). Nel 2019 succede lo stesso, salvo che a fare notizia è Salvini: entra a Modena o si ferma fuori? eccetera. Con Bonaccini che nel frattempo probabilmente si domanda: ma tutta questa attenzione, mi serve davvero? Perché è vero che cinque anni fa vinse col 50% (in realtà un 49%, ma non sottilizziamo), ma lo ottenne con appena seicentomila voti, più o meno la metà di quelli raccolti da Vasco Errani cinque anni prima. Fu quasi una vittoria per abbandono, e avrebbe dovuto far riflettere già allora gli osservatori che sostenevano inevitabile lo sfondamento di Renzi al centro.

Sia alle elezioni europee che alle emiliane di quel magico 2014, Renzi non sfondò esattamente al centro, ma fece una cosa più curiosa: tolse agli elettori di centrodestra la voglia di andare a votare. Che non è un effetto da sottovalutare, anzi. Di fronte a un candidato di centrodestra insipido (e il centrodestra emiliano è sempre riuscito a trovare candidati particolarmente insipidi), l'elettore-tipo di centrodestra si guarda intorno e scopre che comunque il candidato di centrosinistra non solo non mangia i bambini ma ha atteggiamenti e mentalità parzialmente sovrapponibili a quelli del centrodestra (l'ansia per il "decoro", l'ossessione per le "eccellenze"). A quel punto lo va a votare? naaah. Sta a casa. E giustamente: che vinca l'uno o l'altro, che differenza fa per lui? Ha già vinto in partenza.

Questo è più o meno lo schema con cui il PD ha tenuto in Emilia-Romagna, perlomeno fino all'arrivo di Salvini. Qui le cose potrebbero complicarsi, perché l'elettore-tipo di Salvini è un po' meno moderato e ha una serie di istanze che con tutta la più buona volontà il PD locale non può assorbire: no tasse, no euro, no gender, no tutto. A questo punto, se fossi in Bonaccini, spererei che di elezioni in Emilia-Romagna si parlasse il meno possibile: con un po' di culo magari un sacco di gente si sveglierà un lunedì di febbraio scoprendo che bisognava votare il giorno prima. Ma a questo punto arrivano le Sardine e tutti si mettono a parlare delle elezioni in Emilia-Romagna, ahi, qui ora bisogna inventarsi qualcosa. E intanto piove, e i ponti sono chiusi.
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Il problema coi boomer: Mattia Feltri

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Internet è così: sono bastati pochi giorni perché il tormentone "ok boomer" diventasse fastidioso. E allo stesso tempo è un meme che ha un senso e racconta davvero qualcosa di diffuso: l'insofferenza per una generazione che continua imperterrita a spiegare ai giovani un mondo che non esiste più, quel mondo che studiava a scuola e ammirava al Carosello. Facciamo un esempio? I quotidiani italiani, indovinate, sono pieni di esempi. Mattia Feltri, oggi:

A Bedonia, in provincia di Parma, gli studenti delle elementari e delle medie hanno ricevuto un’offerta allettante da Amazon: uno sconto su prodotti di cancelleria, zaini, strumenti musicali. Il sindaco non l’ha presa benissimo. Ha mandato una lettera ai ragazzi e, non potendo rilanciare sul prezzo, s’è giocato l’orgoglio di campanile: voi siete il futuro di Bedonia, comprate nei negozi del paese e lo salverete dalla multinazionale che, dietro la favola del progresso, sfrutta i nuovi schiavi (il succo è questo, la lettera è molto più garbata). 

State visualizzando la situazione? Bedonia, paesino della Val di Cento, a un'ora e mezza di strada da Parma o da La Spezia. Tremila abitanti. È lecito immaginare che esista una sola cartoleria, e che se l'indotto degli studenti venisse a cessare, chiuderebbe. Arriva Amazon e fa quello per cui è nata Amazon, ovvero dumping. Per portare zaini e cancelleria in Val di Cento, la cartoleria locale ha dei costi, Amazon li abbatte. Amazon è un prodotto della fase terminale del capitalismo: sradica i piccoli esercenti come erbacce. In attesa che la grande politica a Roma o a Bruxelles decida come tassarlo, la piccola politica è impotente. Il sindaco può solo fare un bel discorso autarchico, o come si dice oggi, sovranista.

Per carità, qui di Bismarck non se ne vedono, figuriamoci nella deliziosa Bedonia, ma era difficile mettere insieme un discorso più scalcinato e suicida. 

Un bel discorso che al giornalista boomer non piace, del resto egli è un professionista dei discorsi. Sentiamo quello che avrebbe prodotto lui.

Agli scolari, seduti ai banchi per edificare un domani da cui non siano travolti, toccherebbe invece dire: è in corso la quarta rivoluzione industriale, quella del digitale, dopo quelle del vapore, dell’elettricità e dell’informatica; le rivoluzioni destano spavento e provocano disoccupazione, e questa, più veloce, fa ancora più paura e genera ancora più diseguaglianze, ma dalle rivoluzioni si è sempre usciti con più ricchezza e più diritti... 

Ok Mattia Feltri, dunque, da dove cominciare.

Diamo per scontato che tu abbia frequentato le migliori scuole nel miglior momento della storia del mondo: sul serio ne hai portato a casa la nozione che "dalle rivoluzioni si è sempre usciti con più ricchezza e più diritti"? Ecco, vedi, questo è essere boomer. Pensare che la Storia sia solo un insieme di storie a lieto fine, dove il lieto fine era appunto la tua felicità. Più ricchezza per tutti, più diritti per tutti, Mattia Feltri, ma sei sicuro che per dire, Maria Antonietta fosse d'accordo? Più ricchezza per tutti, salvo che per i Borbone che ci hanno perso un po' di teste.

E i latifondisti?
E i vandeani?
E i Romanov?
E i kulaki?

Allora, vedi, tendenzialmente una rivoluzione è una cosa violenta, che fa sì che una classe sociale prima esclusa dalla distribuzione della ricchezza, irrompa improvvisamente in scena e si prenda quello che le spetta, e a volta anche qualcosa in più. E in ogni rivoluzione, davvero, in ogni rivoluzione ci sono vincitori e vinti. Questa cosa a scuola ti è sfuggita e in parte è comprensibile, perché la storia di ogni rivoluzione la scrivono i vincitori, mentre le tesi dei vinti tendono a scomparire (a volte scompaiono anche i vinti, letteralmente). Questo tra l'altro è il motivo per cui lo studio della Storia è una pratica tutt'altro che banale: si tratta quasi sempre di demistificare chi la racconta. Lo abbiamo sempre fatto, in realtà, ma in alcuni periodi si è rivelato più difficile.

Ad esempio nel periodo in cui crescevi tu c'era questa idea, che il benessere perlomeno in Occidente fosse ormai un diritto acquisito e inalienabile; e che il progresso fosse inarrestabile. Le cose andavano bene, e quindi sarebbero andate sempre meglio: non solo, ma a quel punto leggendo i libri di Storia vi siete convinti che anche in passato funzionasse così, che anche il passato non fosse che un'inarrestabile sequenza di vittorie, excelsior! no, sul serio, i positivisti di fine Ottocento vi facevano un baffo. Se c'era una rivoluzione su un libro di Storia, di sicuro i vincitori eravamo noi. Avevamo vinto con Cromwell, con Washington, con Robespierre (ma anche con Napoleone), e anche tutte le rivoluzioni industriali comunque le avevamo vinte noi in quanto aspiranti imprenditori, o al limite consumatori. Solo la rivoluzione russa meritava un discorso a parte, perché i russi non facevano parte della trionfante Storia Occidentale. Ok, Mattia Feltri, e magari ne sei ancora convinto.

Ma pensi che un giovane di oggi possa lasciarsi convincere da te?

Allora ti spiego, qualsiasi leghista con la terza media – no, non c'è bisogno della Bestia di Salvini, non c'è bisogno dei social network e dei fondi russi – qualsiasi leghista poco acculturato, magari uno di quelli pittoreschi che andava a Pontida con le capigliature da pellerossa: qualsiasi leghista del genere ha capito il problema di Bedonia meglio di te. Magari non ha fatto le tue buone scuole, ma in scuole peggiori ha comunque capito che ogni rivoluzione ha vincitori e vinti, e noi non siamo sempre i primi.

Non siamo sempre i giacobini. A volte siamo i vandeani, magari non avremmo voluto, ma le Rivoluzioni non sono un gioco in cui puoi scegliere all'inizio da che parte stai. La rivoluzione americana non l'hanno vinta tutti. Gli inglesi per esempio l'hanno persa, e i pellerossa nel medio termine ancor di più. Se vivi a Bedonia, e la rivoluzione è Amazon, il pellerossa sei tu, e questa cosa l'aveva capita persino Umberto Bossi – anche lui un boomer, tecnicamente. Perché ce n'è anche di svegli.

Tu invece, caro Mattia Feltri, ai pellerosse della Val di Cento, cosa vorresti raccontare? Fammi indovinare: che resistere è inutile, un'illusione, e si salveranno soltanto scappando in città? Ma non mi dire.

...e resistere al mondo che cambia è un’illusione nella quale l’uomo si è spesso malamente impantanato; la politica dovrà fare il suo, ma voi studiate perché nei Paesi più tecnologicamente avanzati di disoccupazione ce n’è meno; studiate qui e poi andate in un’università a studiare l’interazione tra uomo e macchina, l’intelligenza artificiale, la robotica, il management, l’ingegneria, prendetevelo questo mondo, non scappate, prendetelo per il bavero e rendetelo migliore.

Studiate intelligenza artificiale, studiate robotica, e vincerete. Tutti? C'è posto per tutti nelle facoltà di ingegneria e robotica? Il senso stesso della robotica non è ridurre i compiti degli esseri umani? Il boomer sa benissimo che la sua ricetta, la "ricerca della felicità", è un sentiero stretto che lascia indietro la maggior parte dei concorrenti. Ma non ha importanza: importa soltanto che chi arriva alla fine del talent show possa raccontare a tutti che ha vinto, e se ha vinto lui tutti possono seguirlo. I ragazzi se ne vadano tutti a studiare lontano: uno su cento ce la farà, gli altri falliranno ma non avranno spazio per lamentarsene sui giornali, qualcuno tornerà al paesino tra i monti e lo troverà disabitato, o occupato da immigrati più poveri, o nel caso migliore (migliore?) trasformato nel museo delle cere di sé stesso mediante Airbnb. Cosa dire.

Davvero, cosa dire a Mattia Feltri ancora convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. Qualche argomento potrebbe fargli cambiare idea? In fondo per lui è stato davvero il migliore dei mondi: non cambierà idea. E non si sposterà da dov'è, e continuerà a spiegarci che per vincere basta impegnarsi. Ok.

Sul serio, che altro dirgli – ok boomer.
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Renzi 1 – Salvini 1 – giornalisti 0

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Anche se può essere ugualmente teso ed emozionante, un "duello" televisivo non è un vero duello; non è un match, non è una partita. La differenza sostanziale sta nel risultato: un duello è definito dal fatto che non possa che esserci un vincitore. Quando il vincitore non c'è, come in quel film di Ridley Scott, il duello non è davvero finito. Anche nello sport è quasi sempre così (il calcio è un'eccezione). I dibattiti televisivi non sono così, anche quando cercano di vendersi come "duelli", come quello di ieri sera da Vespa. A proposito: secondo voi ha vinto Matteo Renzi o Matteo Salvini? È una domanda retorica, scusate, in realtà non m'importa così tanto del vostro parere. Suppongo che dipenda molto da quanto vi risulta simpatico uno dei due, o a quanto vi stiano antipatici entrambi. Ma il solo fatto che il giorno dopo se ne possa discutere ("chi ha vinto"?) dimostra che non stiamo parlando di un duello – che viceversa è la negazione di un dibattito. Fino a qualche decennio fa spesso serviva a terminarlo una volta per tutte: io dico che tu sei un farabutto, tu neghi l'affermazione, per decidere chi ha ragione ci si vede domattina dietro al convento dei carmelitani scalzi.

(Fermatevi per un attimo, gustatevi l'immagine dei due Mattei in manica di camicia, che si allontanano nella bruma con una pistola in mano, mentre su un lato Bruno Vespa conta i passi. Quello sarebbe stato un duello).



Invece in un dibattito televisivo possono vincere entrambi, anzi; il motivo per cui a volte due politici acconsentono a un "duello" è proprio che entrambi ritengono di poter ottenere qualcosa senza rimetterci molto (non sono mica politici per caso). È più o meno il caso del dibattito di ieri sera: entrambi avevano un'occasione per mettersi in mostra al loro pubblico di riferimento, ed entrambi hanno cercato di impiegarla al meglio. Entrambi ora possono pubblicare sui loro profili social qualche spezzone che dimostri in modo equivocabile ai loro fan che hanno 'asfaltato' l'avversario. Quanto a noi, possiamo anche assegnarci il ruolo di esperti di comunicazione (su internet è gratis), inforcare un monocolo immaginario e cercare di capire/spiegare chi dei due abbia fornito la prestazione migliore. Boh. Quasi quasi direi Renzi: ha rischiato di più, anche perché aveva meno da perdere. Ma a questo punto è chiaro che non stiamo più parlando di una competizione tra i due, quanto di una gara che ognuno stava ingaggiando con sé stesso, e con le aspettative che ormai il pubblico ha nei suoi confronti. Salvini da questo punto di vista ha giocato in difesa, recitando senza sbavature il ruolo di Matteo Salvini: ma non è quello che i suoi elettori pretendono da lui?

E quindi ci troveremmo di fronte a un esempio lampante di gioco win/win: entrambi vincono, entrambi ci guadagnano. E allora perché io spettatore mi sento defraudato? Mi aspettavo davvero che almeno uno stramazzasse al suolo? No, onestamente non ci speravo: queste cose non succedono, da Vespa poi. Però devo ammettere che per quanto basse fossero le mie aspettative, sono rimasto deluso, in alcuni momenti persino disgustato. Non tanto da Renzi e Salvini, che stavano facendo il loro mestiere. Forse nemmeno da Vespa, che si limitava a contare i minuti e a prevenire quei corpo-a-corpo che sul ring diventano anti-spettacolari. Quelli che mi hanno messo davvero in imbarazzo sono i "giornalisti".

Lo scrivo tra virgolette perché la considero una citazione: a un certo punto Vespa ha annunciato che nella seconda parte del dibattito ci sarebbero stati i "giornalisti". Voi li avete sentiti? Uno in effetti a un certo punto ha osato fare una domanda, ma è stata un'eccezione. Gli altri si sono fatti un'ora e mezza di diretta tv per niente e umanamente mi spiace per loro; immagino che sia faticoso rimanere per tanto tempo sotto i riflettori cercando di mantenere un'aria concentrata, contenere gli sbadigli eccetera. Poi spero che abbiano protestato, perché, insomma, che ci sono andati a fare? Già.

E allo stesso tempo, che ci aspettavamo da loro? Cosa avrebbero dovuto fare? Le domande. Quelle scomode, quelle che avrebbero dovuto mettere in difficoltà i due duellanti. Ma come Vespa ha prontamente capito, non ce n'è stato bisogno: i due le domande se le stavano già facendo tra loro e sembravano già abbastanza 'scomode'. Un intervento terzo sarebbe stato ridondante. Renzi e Salvini non solo hanno vinto, ma hanno sconfitto i giornalisti, li hanno ammutoliti. Alla fine anche la loro tacita presenza ha avuto un senso: hanno rappresentato per un'ora e mezza la sconfitta del "giornalismo" da talk-show. Nessuno ha dato loro la parola perché nessuno ne sentiva il bisogno; i politici le domande se le sanno fare da soli.

Ora immagino un'obiezione: forse i giornalisti non dovrebbero semplicemente fare le domande, forse da loro ci aspettiamo qualcosa di più. Il fact-checking? Ho letto qualcuno proporre un fact-checking, magari approfittando dei break pubblicitari per appurare se quanto dicevano i due fosse vero o falso. Sono un po' scettico. Il fact-checking è una cosa delicata: se lo fai in diretta rischi di commettere ulteriori errori davanti a due contendenti che non vedono l'ora di strumentalizzarli. Ma non credo nemmeno che avrebbero accettato un rischio del genere: un tizio super partes che a un certo punto del duello si mette tra i due e si mette a contare per filo e per segno tutte le affermazioni false? Non è così che funziona in tv, perlomeno da noi. Il fact checking si può fare sui giornali del giorno dopo: ecco una delle tante cose a cui i giornali possono ancora servire. Giusto.

E tuttavia.


E tuttavia, davvero possiamo permettere che i politici in televisione affermino tutto quello che vogliono senza che nessuno mai si alzi a chiedere, semplicemente: ma cosa sta dicendo costui? Anche questa è una domanda retorica: Porta a Porta funziona così, e funziona da così tanto tempo che ormai in Italia un'intera generazione, se cambiando canale inciampa in Via col vento, si domanda cosa sia questo film che ha rubato la sigla a Bruno Vespa. Ma in generale i talk italiani sono così. Se vuoi un politico, lo devi ascoltare e al massimo ogni tanto annuire. Se vuoi più azione puoi mandargli contro un altro politico, e a quel punto le domande se le faranno da soli, e anche al fact-checking dovranno pensarci loro. Non è un'iperbole, ieri a un certo punto Renzi ha deciso di interpretare il ruolo di fact-checker di Salvini, con risultati non sempre soddisfacenti: per più di una volta gli ha permesso di affermare serenamente che grazie a lui i morti annegati nel Mediterraneo sarebbero diminuiti. Ecco, quando parlavo di disgusto mi riferivo a cose del genere: possibile che nessuno in quel momento abbia osato chiedergli in che modo li stava contando, i morti annegati nel Mediterraneo? Ormai sappiamo che il famoso "pull factor" non esiste; sappiamo che non basta chiudere i porti (o dichiarare i porti "chiusi") per evitare che la gente in Libia si imbarchi. Quindi Salvini è davvero convinto che basta mandare meno navi a contare meno morti annegati per risolvere il problema? Ovvio che no, ovvio che sta semplicemente prendendo in giro i suoi interlocutori. Davvero nessuno poteva farglielo presente, in quel momento, se Renzi in quel momento pensava ad altro o non voleva insistere? Davvero l'unico limite alle sparate di uno dei due contendenti dev'essere l'attenzione dell'altro? E se a entrambi conviene dichiarare il falso su un argomento?

La cosa più disgustosa è successa alla fine, e almeno su questo livello io posso dichiarare un vincitore: a disgustarmi di più è stato Matteo Salvini che ha chiuso il dibattito facendo con le mani il segno delle forbici, a indicare il trattamento che gli piacerebbe riservare nei confronti dei molestatori dei bambini. Dove il linguaggio verbale non poteva arrivare, il gesto è arrivato forte e chiaro e a quel punto non c'era comunque il tempo, né lo spazio, né l'opportunità di alzarsi e domandare: onorevole Salvini, ma a chi la vuole dare a bere? Lei non castra nessuno. Non ne ha il potere, non ne avrebbe la forza, le mancherebbe il coraggio. Tutto quello che ha osato fare è proporre in parlamento una cosa che dietro un nome minaccioso ("castrazione chimica") nasconde una banale cura ormonale: una terapia che in teoria, solo in teoria, dovrebbe inibire gli atteggiamenti violenti dei maniaci sessuali. Niente forbici, onorevole Salvini, non siamo all'asilo e non ci vanno nemmeno i suoi elettori. Ecco, qualcuno avrebbe dovuto rispondergli così. Non poteva essere il suo avversario, che doveva coprirsi e non poteva rischiare di passare davanti ai telespettatori assonnati come un difensore dei maledetti pedofili. Non poteva essere l'arbitro-presentatore. Avrebbero potuto essere i giornalisti, ma a quel punto forse si erano addormentati anche loro: e li capisco.
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Di minibot non vuol sentir parlare nemmeno Bagnai

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(Avvertenza: questo post è talmente lungo che ne contiene uno di Bagnai).

"I AM THE CREATOR OF THE MINIBOTS:
LOOK ON MY WORKS, YE MIGHTY, AND DESPAIR!"
(Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away).
Ma la Lega i minibot li vuole davvero? Non sarà una di quelle tipiche cose leghiste che si danno in pasto al parco buoi in estate, come gli esami in dialetto, le bandiere regionali, i ministeri al Nord? L'ultimo intervento di Giorgetti sembrava autorizzare questa ipotesi. Poi Claudio Borghi (colui che su Twitter si fa chiamare "the Creator of the Minibots") ha spiegato che in realtà Giorgetti non voleva completamente sconfessare e ridicolizzare la sua trovata da apprendista economista, eccetera. Va bene.

In questi casi di solito ci si racconta la favola dei falchi e delle colombe: la Lega è ormai un grande partito, e in un grande partito di solito c'è chi interpreta una visione delle cose più realista e moderata (Giorgetti? Tria?) e chi non ha la minima intenzione di seppellire l'ascia di guerra tanto sfoggiata in campagna elettorale: Claudio Borghi, senz'altro, magari Savona. E ovviamente Bagnai.

Ah, giusto, Bagnai. Perché se c'è un falco no-euro in Lega, questi è senz'altro lui. Quindi insomma, dei minibot cosa pensa?

Ecco, è bizzarro. Ne pensa pochissimo, non ne parla mai. Questo sarebbe strano anche se Bagnai non fosse l'economista di punta della Lega, il più preparato e accademicamente titolato. Sarebbe strano anche se Bagnai non fosse l'economista di riferimento dei falchi no-euro della Lega, perché Borghi  tutta quest'aura da economista esperto non ce l'ha mai avuta – è uno da talkshow, diciamo. Questa cosa che Bagnai non abbia mai scritto un solo post, mai un solo post sui minibot, sarebbe strana anche se Bagnai non fosse uno dei blogger più facondi d'Italia (e se ve lo dico io ci potete credere). Bagnai di euro e non euro parla da anni, e mentre ne parla riesce a infilarci dentro qualsiasi cosa, dalla teoria musicale barocca alle strisce giornaliere di Floyd Gottfredson, per cui è davvero molto curioso questo fatto che se scrivi "minibot" sul motore di ricerca del suo blog ti restituisca zero risultati. Insomma l'ultimo dibattito tra Giorgetti e Borghi dobbiamo immaginarcelo recitato alla presenza di un ingombrante convitato di pietra. Questa posizione alla lunga deve essere sembrata insostenibile anche allo stesso Bagnai, che finalmente lunedì ha deciso di chiarire la sua posizione sui minibot.

Ci ha messo 19.128 caratteri.

Che per lui non sono neanche tanti – e del resto seppellire le evidenze scomode sotto mucchi di parole divaganti è una tecnica non nuova su Goofynomics.blogspot.com. Siccome però qua fuori c'è anche gente che lavora, e poi fa anche molto caldo, insomma, ho deciso di venire incontro al pubblico lanciando un servizio di traduzione dal bagnaiese all'italiano, una nuova rubrica (spero molto saltuaria): Alberto Bagnai per chi non ha tempo. Nella casella sinistra troverete quindi l'originale, e in quella destra la mia molto sbrigativa versione. Riconosco che nel passaggio qualche sfumatura di significa potrebbe perdersi: del resto Bagnai è un universo.



BAGNAI

Rischierò di essere ripetitivo.
ITALIANO

Mi ripeto,
Esattamente come, nel tentativo più o meno riuscito di darvi qualche rudimento di analisi macroeconomica, ho scelto di insistere su pochi strumenti, snelli e solidi, fra cui il principale è l'analisi dei saldi settoriali (iniziando col primo e colsecondo post dedicati alla "Premiata armeria Hellas", e proseguendo poi per numerosissimi altri post dove il metodo è stato applicato ai paesi più disparati, dalla "A" di Azerbaijan alla "S" diSlovenia), così, ora, per farvi capire come funziona la politica, devo fornirvi alcuni strumenti essenziali per interpretare i dati politici che vi vengono forniti dai mezzi di informazione.
Il più essenziale è semplicissimo da mandare a mente, e anche piuttosto agevole da comprendere nelle sue articolazioni principali, oltre a essere già stato espresso in modo molto più autorevole da tanti prima di me. Eppure, con mio grande rammarico e stupore, vedo che proprio non vi entra in testa! Ma io sono tenace, altrimenti non vi starei scrivendo da questa scrivania dopo l'incardinamento del decreto "crescita", ma da un'altra scrivania dopo una lezione... sui saldi settoriali (!), e quindi insisto. Non potete, e quindi non dovreste, arrischiarvi in analisi politiche (né tanto meno in proclami o roboanti ultimatum secondo il modulo "Radames discolpati!" riportato in auge dagli "zerovirgolisti" di destra), non dovreste, ripeto, arrischiarvi in analisi politiche senza aver prima ben capito e interiorizzato un dato ovvio:
ma è colpa vostra: siete talmente rintronati che vi devo sempre spiegare tutto dall’inizio, comprese le ovvietà, come per esempio:
i giornali mentono.
i giornali mentono.
Voglio subito chiarire, a scanso di equivoci, che questo non è un giudizio soggettivo, nel duplice senso che (i) non è una mia valutazione soggettiva (è un dato di fatto, come vi ho non ampiamente dimostrato - avrei tonnellate di altri esempi!); e (ii) non è un giudizio sulle intenzioni soggettive dei giornalisti. Non sto assolutamente dicendo che i giornalisti siano "cattivih!" o che lavorino male: dire che i giornali mentono non significa assolutamente dire che i giornalisti siano mentitori. Parole diverse esprimono concetti diversi. Semplicemente, le dinamiche oggettive del loro lavoro conducononaturaliter i nostri amici giornalisti (che conosciamo e stimiamo) alla menzogna. Una menzogna che quindi, proprio in quanto determinata da fenomeni oggettivi, è molto più sistematica e pervasiva di quanto sarebbe se a causarla fosse (solo) una ipotetica mens rea, che ogni tanto potrebbe essere distolta da un suo ipotetico obiettivo di volontaria alterazione del dato.
Nessuna volontà soggettiva, per quanto ferrea, potrebbe ottenere un risultato così graniticamente uniforme e coerente. Non dobbiamo quindi voler male ai giornalisti, trattarli con asprezza, o rampognarli. Semplicemente, dobbiamo non comprare più i giornali, e cambiare canale all'apparire del notiziario (visto che non è l'apparir del vero di leopardiana memoria, ma quello del falso).
I motivi oggettivi cui alludo sono almeno di tre ordini, e due mi erano chiari anche prima di vivere dall'interno le dinamiche della vita parlamentare. Il terzo, che forse è il più devastante, mi è apparso con evidenza solo da dentro il palazzo (essere "dentro" un po' di differenza la fa). Nell'ordine, direi: (i) subalternità al capitale; (ii) ignoranza e fretta (miscela esplosiva!); (iii) selezione avversa.
Non lo fanno neanche apposta, in un certo senso è la loro funzione.

La subalternità al capitale

Della subalternità al capitale ha parlato con tanta chiarezza Gramsci (come ho ricordato nel mio articolo su Micromega), per cui non credo di aver molto da aggiungere. La sua analisi, pubblicata sull'Avanti! nel 1916, la trovate qui a p. 21 sotto il titolo "I giornali e gli operai", e il suo invito a boicottare la stampa borghese, pur se viziato da un ovvio conflitto di interessi (Gramsci scriveva per la concorrenza!), è ben argomentato e, con le dovute rettifiche alle categorie di classe utilizzate all'epoca, del tutto attuale. Il nocciolo è qui:
"Tutto ciò che [la stampa borghese, ndr] stampa è costantemente influenzato da un'idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all'ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione. Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell'opera di difesa spiegata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi invece pagare... dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente. Centinaia di migliaia di operai, dànno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo cosí a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete in tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: «Perché ho bisogno di sapere cosa c'è di nuovo». E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possano essere esposte con un'arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso."
...e 103 anni dopo non credo che ci sia molto da aggiungere. Detto, ovviamente, sine ira et studio. Ma, fatte le debite proporzioni, pensare che oggi grandi industriali o grandi banchieri (gli unici che possono permettersi quei costosi giocattoli in perdita che sono i media) siano così solleciti delvostro interesse da fornirvi strumenti per promuoverlo a discapito del loro mi sembra sia un pochino ingenuo, ne converrete, come pure non occorrono i sensi di ragno di Spiderman per capire che c'è qualcosa che non va quando Landini parla come Giannino (o Giannini)...
Quindi i giornali vi mentono (rectius: vi forniscono una visione partigiana ed artefatta della realtà) perché espressione di interessi costituiti non necessariamente allineati ai vostri: se non siete almeno milionari, è fortemente probabile che ci sia un deciso disallineamento. Ma anche qui, insisto: il giornalista, poverino, non è colpevole, non può farci nulla. Sì, d'accordo, Upton Sinclair, ma non è così semplice. Non è un mero problema venale. Se fosse così, potremmo fare una colletta e corrompere i giornalisti perché dicano la verità! (A beneficio degli ultimi arrivati, chiarisco che non ci servono verità metafisiche: ci bastano verità tecniche, come quella che negli anni '70 la disoccupazione era circa la metà di quella attuale...).
Il problema è più complesso perché corre ormai quasi un secolo (per l'esattezza, 99 anni) da quella conferenza di Bruxelles in cui, come ci racconta Clara Elisabetta Mattei nel suo The guardians of capitalism, gli esperti di economia si raccolsero per elaborare il messaggio, oggi diremmo il frame (nel senso di Lakoff) sul quale articolare il dibattito economico per riprendere il controllo della restless post-war civil society (inquieta società civile post-bellica). Un messaggio a noi ormai tristemente noto: quello dell'austerità. Di "Stato come una famiglia", di "medicina che fa bene solo se è amara", di "riparare il tetto quando il Sole splende - ma anche quando piove", e consimili baggianate moralisteggianti è stata permeata, a botte di milioni e milioni spesi a fini propagandistici, la coscienza civile europea lungo tutto un secolo. Certo, fa specie vedere un giornalista che si crede "di sinistra" dimenticare Gramsci e allinearsi a Giannino (non a von Hayek: a Giannino!). Ma bisogna essere indulgenti: i mezzi dispiegati per frantumare le categorie logiche ed economiche con l'illogica emotiva e moralisteggiante ad uso del padrone di turno sono stati ingenti. Dove non riuscì Keynes, nonostante le sue indubbie qualità letterarie e una fastidiosa tendenza ad azzeccare le previsioni, non presumo di poter riuscire io, o per lo meno non subito, e certamente non da solo.
Ovviamente, il fatto che tutto fosse chiaro a Gramsci 103 anni fa rende inescusabili quei lettori "de sinistra" che ancora si abbeverano alle fonti delmainstream. Quelli "de destra", porelli, in fondo sarebbero assenti giustificati. Ma ci sono altri due argomenti che voglio sottoporre loro, per dotarli di quel fondamentale presidio di igiene del dibattito che è la disinfezione dai media.
Lo diceva anche Gramsci [giornalista], eh, quindi a sinistra siamo coperti.

L'ignoranza (e la fretta)

Le dinamiche oggettive della produzione di notizie non sono di natura tale da condurre a ottimi risultati, e questo ce lo possiamo dire con sincerità (e con sincerità lo ammettono i giornalisti, che sono nostri amici - come la Germania, che a loro tanto piace...). Il rifiuto istintivo da parte dei lettori della qualità scadente e del discorso artefatto e internamente incoerente, qui tante volte espresso, trasforma i media in imprese in perdita. Chi ci lavora, pagato poco, col passare del tempo è pagato di meno, il che, in questo come in altri settori, non è un grande incentivo a lavorare bene, tanto più che alla fine uno può cavarsela col "copia e incolla" dei lanci di agenzia delle 17, aggiungendo qualcosa ad colorandum. Questo spiega perché di fatto quello che leggiamo è, con pochissime eccezioni, un "giornale unico", scritto da chi apre i cancelli dell'informazione alimentando le agenzie, secondo il meccanismo descritto da Marcello Foa ne Gli stregoni della notizia.

E poi c'è un altro problemino.

Le dinamiche oggettive (anch'esse) che ci hanno condotto alla crisi più lunga e profonda della nostra storia (vi rinvio a un articolo in cui i dati non sono aggiornati, semplicemente per ricordare a me stesso che qui certi dati si facevano vedere quando nessuno ne parlava) determinano una conseguenza ovvia: l'economia sta prendendo sempre più il centro della scena. Un processo assistito dal fatto che l'Europa del Fogno (che non è un errore di battitura ma un errore politico) non è mai decollata, riducendosi, come era logico succedesse, ad una mera espressione economica. Ora, l'economia e il pianoforte hanno due cose in comune. La prima è che possono piacere o non piacere (c'è chi preferisce il clavicembalo, ad esempio). La seconda è che vanno studiati da piccoli. Quando sento pretenziosi laureati in laqualunque esternare saccenti in materia della quale nulla sanno, e nella quale si addentrano con la grazia (e l'inevitabile destino) di un toro Miura in un campo minato, mi viene da sorridere di compassione: rivedo certi miei studenti...

La situazione quindi è questa: persone che capiscono poco di una materia della quale non sanno niente vi dicono tutto quello che sapete.

(...si badi bene, sono ammirevoli: da niente a poco è tanta roba!...)

Cosa può andare storto?

A volta mentono per malizia, a volte per insipienza (a proposito: Foglio merda), comunque mentono, lo dice anche Marcello Foà [giornalista], per cui siamo coperti pure a destra.

Un esempio lo chiarirà, ma ad esso devo premettere due brevi parole per calarlo nel contesto.

Tutto questo preambolo per spiegarvi una cosa importante:

Nonostante che la proposta dei minibot sia stato lanciata da Claudio Borghi nel dibattito italiano sette anni fa al primo compleanno di questo blog, e nonostante che io abbia la massima stima per Claudio, come sapete il tema non mi ha mai ispirato particolarmente.

Io coi minibot non c’entro, chiaro? È roba di Claudio.

Se fate una ricerca del termine minibot su questo sito trovate solo interventi dei lettori, per lo più senza mia risposta. Non c'è un motivo particolare.

se me ne chiedete io manco vi rispondo, io di minibot non-ne-parlo, chiaro? È chiaro?

Non ricordo un intervento di Claudio sulla teoria dei saldi settoriali, il che non significa che non sia d'accordo con essa!

E non dirò mai niente di male su Claudio, ma insomma, io dei due sono quello che conosce la teoria dei saldi settoriali.

Certo è che io di quella roba non ne ho mai parlato.

Mentre lui è quello che si fa le foto coi bigliettoni colorati del Monopoli. Vi sfido a trovare un mio intervento su quella roba. Non ne parlo. Chiedete a Claudio.

 Ma se fate una ricerca con le parole chiave Bagnai e minibot trovate tutt'altro: dalCorriere (tanto nomini...) a Next al Post, passando (grazie a Dio) per una testata seria come Lercio (vi risparmio testate minori...) è tutto un chiamarmi in causa in modo più o meno esplicito, ma sempre piuttosto infondato (date le premesse che vi ho esposto).

Se vi è parso diversamente sui giornali, è perché (come dicevo più sopra) i giornali mentono. Fine.

Ora, caso vuole che i minibot siano da più di un anno nel contratto di governo, e il fatto che i media se ne accorgano solo oggi già la dice lunga, ma il tema non è questo. L'indecorosa gazzarra che sta tenendo banco da qualche ora sui media (e che fra poche ore sarà sostituita dalla successiva indecorosa e infondata gazzarra) è nata in questo modo qui:

Il travisamento che ha portato a tante dotte analisi si basa su una tecnica semplicissima: si fa una domanda assurda, e si riporta solo la risposta! Voglio solo attirare la vostra attenzione su un punto. In episodi come questi non c'è necessariamente malizia. A me sembra perfettamente possibile, e molto più probabile, che una domanda così dadaista sia potuta venire in mente al volenteroso operatore dei media per il motivo molto semplice che lui, di che cosa siano i minibot, non sa nulla! Che la cartolarizzazione di un debito dello Stato possa servire ad evitare la procedura di infrazione (intendendo quella per debito eccessivo: ovviamente, ce ne sono anche per i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione, ma il giornalista non si riferiva certo a queste ultime...) può venire in mente solo a chi non sappia di che cosa sta parlando.

Ed ecco un caso preclaro di come l'esplosivomix di ignoranza e fretta (con la solita porca vanagloria di fare lo "scuppone") fa girare in tondo per due giorni il meraviglioso circo dei media. D'altra parte, se i circhi sono tondi, un motivo c'è...

Un altro caso di consimile dinamica la trovate, se interessa, qui.

Inutile dire che queste dinamiche che, soggettivamente o oggettivamente, tendono a creare un incidente all'interno della maggioranza (fra o nei partiti che la compongono) ci sono ormai note. A noi addetti ai lavori questo fenomeno è perfettamente chiaro, e così se con Alessandro ci siamo sentiti per il piacere di salutarci, anche Claudio e Giancarlo hanno chiarito l'episodio perché dovevano parlare di altro, certo non di una fanfaluca simile.
Io poi Claudio lo devo pur difendere, è chiaro, prima che passasse Claudio insegnavo a Pescara, mò sto a Palazzo Madama, voi non sentirete mai da me una parola cattiva su Claudio. Però per i minibot chiedete a lui.

E qui si arriva al terzo punto, la selezione avversa.

La selezione avversa

I meccanismi che vi ho descritto fin qui determinano due conseguenze piuttosto ovvie in chi come me esercita attività politica a un certo livello. La prima è che non crediamo minimamente a quello che ci dicono i giornali, al punto che, personalmente, nemmeno li leggo. Non mi interessa che cosa dicano di me perché so come lavorano, e quindi non mi interessa che cosa dicano degli altri, o facciano dire agli altri. La seconda è un po' meno evidente a chi sta all'esterno, ma non meno gravida di conseguenze. Siccome sappiamo che qualsiasi cosa diremo sarà travisata o per esigenze di "linea editoriale" (l'ipotesi "Gramsci", di cui questo è un caso), o per mera ignoranza (la storia dei minibot secondo me ricade in questa categoria), quelli di noi che hanno per le mani pratiche minimamente rilevanti ben si guardano dall'accostarsi ai giornalisti, cui rimane, come unico conforto, come unica speranza di arrivare un secondo prima del loro collega, la platea dei nostri colleghi che, per una serie di motivi, non hanno incarichi di rilievo. Ad esempio: i senatori eletti sono 315 e le Commissioni permanenti quattordici, il che comporta che 301 senatori eletti non saranno Presidenti di Commissione permanente, pur essendo magari più preparati di chi ci è capitato (io faccio una fatica bestiale a star dietro a tutto), e pur avendo, in certi casi, maggiori informazioni del Presidente su affari specifici (ad esempio, quando tocca a loro fare da relatori). Fatto sta, però, che a certe riunioni, per problemi meramente organizzativi, ci vanno solo certe persone, che un filo diretto col comando ce l'hanno solo alcuni, ecc., e i giornalisti, a causa del loro comportamente, in modo pressoché sistematico parleranno solo con gli altri. Quindi i "retroscena", i "fonti parlamentari", ecc., sono basati su notizie frammentarie provenienti da fonti non sempre vicinissime ai luoghi dove si esaminano i problemi e si stringono gli accordi politici. Ne conseguono analisi distorte non solo per i due motivi di cui sopra (le dinamiche di classe e quelle del processo produttivo), ma anche perché a causa delle due dinamiche di cui sopra i giornalisti si precludono l'accesso a materia prima sgrezzata: devono prendere quello che trovano, e ogni tanto cadono male. Non tutti hanno bisogno di visibilità: io, ad esempio, l'aborro, tant'è che voi vi lamentate perché non mi vedete abbastanza in tv. Altri magari ne hanno più bisogno, ma allora non necessariamente hanno notizie attendibili. Analisi ulteriormente distorte portano a una ulteriore ritrosia da parte di chi sa ad accostarsi a chi per un motivo o per l'altro falla. Restano solo fonti secondarie, e la conseguenza è un ulteriore scadimento.

Mario Sechi, che è intervenuto prima di me alla scuola GEM2019, mi dicono abbia analizzato in questi termini questo fenomeno, lamentandosene: "non si trovano più fonti parlamentari!". Mario è una persona onesta e (a me) simpatica, anche se sono ideologicamente molto distante da lui. Non credo di dovergli chiarire il perché le fonti si prosciughino! A me piacerebbe, considerandolo un interlocutore intellettualmente stimolante proprio perché non la pensa come me, poter condividere con lui qualcosa di quello che posso condividere (perché nel mio lavoro non tutto si può e non tutto si deve condividere). Ma purtroppo, nonostante che lo stimi, come stimo pochi altri (che quindi non cito perché in una lista breve le omissioni involontarie sarebbe offese cocenti), devo privarmi del piacere di interloquire con lui perché tanto una delle tre porche dinamiche qui descritte alla fine entrerebbe in gioco, rovinando un rapporto che finora è stato, e spero continui comunque ad essere, cordiale.

Chi le cose le fa (come Giorgetti, per fare un esempio...) ha poco tempo per raccontarle, e chi, come me, avrebbe più tempo per comunicare, alla fine pensa che se tanto il giornalista deve mettergli in bocca parole non sue, forse può anche farlo senza la sua collaborazione!

Concludendo

Ecco: quello che vi ho detto oggi, e che "taggo" con la parola "propaganda" (un tema di cui qui ci siamo occupati estesamente) sta alla politica come l'aritmetica dei saldi settoriali sta alla macro. Interessi costituiti, ignoranza e selezione avversa (particolarmente forte in questa stagione politica) rendono, purtroppo, i media assolutamente inattendibili. Basta saperlo. Sapere poi quali sono le dinamiche che li rendono tali aiuta ad esercitare un'attenzione critica mirata. Occorre un filtro molto potente per isolare dal gran noise la poca informazione che porta.

Noi lo vediamo anche come un'opportunità. Alla fine, il nostro nemico spara da solo i fumogeni che gli impediscono di capire che cosa stiamo realmente facendo! Se provassimo noi, che siamo persone ingenue e sincere, a fuorviare i giornalisti per essere lasciati in pace sugli affari che ci stanno a cuore, non potremmo riuscirci tanto bene quanto ci riescono da se stessi (tutto l'affaire minibot è un caso di scuola meraviglioso)!

Voi, invece, dovete stare un pochino più attenti, almeno, se volete che i rapporti restino cordiali. Chi interloquisce su Twitter in modalità "Radames discolpati" perché Giorgetti ha detto e perché Molinari ha fatto fino a oggi è stato bloccato sporadicamente. Dopo questa ampia ed esaustiva spiegazione sarà bloccato sistematicamente. Vado su Twitter per informarmi e divertirmi. Il melodramma non è divertente, e chi non capisce cose semplici, come quelle che ho spiegato oggi, difficilmente sarà portatore di informazioni rilevanti.

...sempre tenendo conto che i giornali mentono. Tutti mentono. Mai fidarsi.

Pax et bonum.

La predica è finita, andate in pace.

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Salvini è sempre più solo

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Per la seconda volta nel giro di un anno c'è stato un momento in cui, a un passo dal trionfo, Salvini è sembrato tentennare: allontana da me questo calice. Un anno fa un fuorionda lo catturò mentre si lasciava spaventare dai sondaggi riservati che annunciavano il crollo di Renzi: troppo presto, troppo forte. Quest'anno, dopo aver girato la penisola come un matto, un mulo, una di quelle rockstar che si scrivevano il nome del paese sulla mano per ricordarselo, a un certo punto Salvini si è come autosospeso. Non ha annullato nessuna data, ma ha smesso di cavalcare qualsiasi notizia gli convenisse - dalle mie parti un clandestino ha dato fuoco a due vecchiette e lui ha glissato. Addirittura ha liberato Tria: ha lasciato autolesionisticamente che circolasse l'idea di ritirare gli 80€ che Renzi aveva infilato nelle buste dei dipendenti. Per la seconda volta nel giro di un anno, Salvini ha avuto paura di vincere, o almeno di vincere troppo. Perché alla fine questa campagna elettorale permanente inaugurata da Berlusconi, in cui lui è cresciuto senza aver mai fatto altro nella vita, è tutto quello che ha: ma non è uno di quei giochi dalle regole ben definite come per dire il ciclismo. Qui se cominci a staccare davvero gli avversari, come fai a essere sicuro che dietro quella curva ti stiano ancora seguendo, come fai a non temere che abbiano deciso di lasciarti andare da solo al macello. Magari all'arrivo non c'è nessuna ragazza con fascia e mazzo di fiori; di sicuro c'è l'Iva al 25%, lo spread, un sacco di elettori che a questo punto la flat tax la pretende, eccetera. Non dissimilmente da Renzi qualche anno fa, Salvini è costretto a correre per restare in piedi. Forse ha più fiato, sicuramente conosce meglio il terreno; proprio per questo motivo la prospettiva di andare avanti da solo potrebbe sgomentarlo. E non ha alternative: sia M5S che Berlusconi sono spompati, con uno dei due dovrà comunque appoggiarsi ma sarà più un peso che un sostegno.

Per oggi tutto qui, ricordo a tutti che domani pomeriggio sono a Modena a presentare il magnum opus di Raffaele Alberto Ventura.

Ps: vedo che in queste ore circola un'analisi post-voto di Wu Ming che trovo allo stesso tempo condivisibile e ingenua. Analisi condivisibile, perché ricorda a tutti che i voti si contano, e che le percentuali al netto dell'astensione sono un'astrazione che conduce a errori di prospettiva che possono essere fatali (sicuramente lo furono nel caso di Renzi, quando cinque anni fa prese meno voti di Veltroni ma si convinse di rappresentare un "40%"). Analisi condivisibile, perché a ignorare l'astensionismo si fa l'errore che fu di D'Alema, e poi di Veltroni, e che oggi è di Calenda: si insiste a immaginare che le elezioni si vincano in un fantomatico Centro dove starebbero i cattolici e/o liberali in attesa del migliore offerente (in pratica Casini e i suoi famigliari, neanche tutti). Analisi ingenua, perché nel tentativo comunque lodevole di alimentare l'ottimismo della volontà, postula che nell'astensione si nasconda un esercito di riserva che prima o poi la sinistra riuscirà a riattivare. Bella idea, salvo che se fin qui non è successo evidentemente non è semplice, né inevitabile. I motivi per cui la sinistra si presenta al voto divisa sono più profondi di quanto le beghe di corridoio potrebbero suggerire. Specie se le elezioni sono europee, in un momento in cui una parte cospicua della sinistra nell'Europa sembra non credere più (e non riesco nemmeno a darle tutti i torti). Poi certo, tradizionalmente uno dei modi in cui una parte politica riesce a organizzarsi e motivare la base, anche alle urne, passa dalla costruzione di una leadership; il che lascia purtroppo fuori chi nel concetto di leadership non crede.
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La Storia ci insegna, ma chi impara?

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– Prof?

– Eh.

– Ma perché lei insegna Storia, scusi

– Perché mi pagano.

– Ah già.

– Poi mi piace.

– Ma perché io devo studiarla, scusi?

– Perché chi non studia il passato è condannato a riviverlo.

– Cioè?

– Ah ma sei uno tosto tu, mi chiedi pure cioè, ma fatti un giro, dai. Vuoi andare in bagno?

– No prof grazie.

– Non scordarti il telefono, dai un'occhiata a insta, ti fai una partita a coso, a fornait...

– Sto a posto così, davvero. Ma cosa vuol dire che chi non studia il passato è condannato a...

– Ma che ne so, vuol dire che boh, se non hai mai studiato gli autobus a due piani e poi ne incontri uno potresti rimanere stupefatto e magari andarci sotto; invece se hai studiato e sai che sono esistiti gli autobus a due piani può darsi, dico può darsi, che l'improvvisa apparizione del veicolo non...

– Cioè se studio il passato ho degli strumenti per capire il presente.

– Ecco sì più o meno.

– Quindi se io incontro delle cose che non capisco nel mio presente, posso controllare nei libri di Storia e...

– Proprio così.

– ...fare dei confronti.

– Già. Cioè no no no no no, i confronti non si possono fare.

– Ma prof.

– È sbagliatissimo. Niente confronti. Presente, passato, compartimenti stagni.

– Ma se chi non studia il passato è condannato a...

– Mi hai capito? Niente confronti, stop. Tassativo.

– Ma perché?

– Perché poi non mi pagano più.


Di cosa volete che discutiamo con gli studenti nelle ore di scienze umane? Se discutiamo di mitologia, loro cominceranno a paragonare i vip che conoscono con gli eroi mitologici, si faranno il loro monte Olimpo pop, è già successo. Se parliamo tutto il tempo di Dante, loro metteranno i vip che conoscono in un inferno simil-dantesco, è già successo. Se parlassimo di Bibbia se ne scriverebbero una (coi vip). Se per assurdo volessimo leggere solo poemi pastorali, si farebbero tutta un'arcadia pop anche loro con i vip che conoscono, è successo perfino questo. Ma.

Ma voi insistete che i ragazzi studino il Novecento. Per voi è molto importante. Hitler-Stalin-Mao, fondamentali. Chi non ha memoria non ha futuro, dove per "memoria" si indica esplicitamente una serie di fatti avvenuti nel '900 senza i quali un cittadino non capirebbe il suo essere tale. C'è la giornata della memoria, la giornata del ricordo, la giornata della rimembranza e guai a chi le sgarra. Il '900 è la nuova Bibbia. Quindi.

Quindi i ragazzi masticano Novecento, digeriscono Novecento, evacuano novecento, e poi indovinate cosa succede? Succede che paragonano i vip che conoscono ai personaggi del Novecento. Si fanno il loro '900 pop, credevate che si sarebbero fatti qualcos'altro? E l'insegnante cosa dovrebbe fare a quel punto: andare in giro per l'aula col fischietto segnando le reductiones che non sono consentite, palestinesi=hitler ok, salvini=mussolini cartellino rosso? I ragazzi riducono, pensare che si possa evitare è un po' pensare che si possa imparare il latino senza mai sbagliare una declinazione o volare senza mai cascare male dal nido (magari si può, adesso che ci penso nessuno ha veramente imparato a volare) (e neanche il latino).
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Epifanio di Salamina e la castrazione semantica

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12 maggio – Epifanio di Salamina (315-403), dottore della Chiesa, blastatore di eretici


Epifanio un po’ lo invidio. Erano tempi un po’ più semplici, almeno per gli intellettuali: esistevano le Scritture, un po’ di patristica, qualche classico pagano ancora universalmente rispettato, e il resto erano fake news, sciocchezze, teorie del complotto da liquidare senza pietà. Non ci mettevi neanche molto: un versetto biblico assestato al momento giusto ti buttava giù tutto l’impianto gnostico, ammesso che gli gnostici avessero un impianto. Epifanio scrisse moltissimo (anche per questo lo invidio) e la sua opera che conosciamo meglio, diciamo pure la sua opera che conosciamo un po’, ha un titolo fantastico: Panarion. Lo trovate a volte tradotto come “Contravveleno”, e i latini preferivano chiamarlo col titolo generico “Adversus omnes haereses”, già appioppato a un Ireneo e a uno pseudotertulliano. Ma Panarion è molto più incisivo e pratico, Panarion era la cassetta del pronto soccorso, con le ampolline degli antidoti e le pinze, le tenaglie, i seghetti, tutto quello che poteva servire ai medici di quei tempi.

In libreria è disponibile
solo a puntate
(piuttosto costose).
Quando scriveva il Panarion, Epifanio non voleva soltanto debunkare gli eretici, ma anche fornire gli strumenti più pratici a chiunque si trovasse in una situazione d’emergenza, circondato da eretici da contrastare nel modo più rapido ed efficace possibile. Quindi ecco un prontuario di tutte le eresie, ramificate e catalogate come malattie, ed ecco un elenco di tutti gli argomenti che puoi usare contro di loro. Molti di questi argomenti – proprio come le medicine del tempo – erano più tossici delle eresie che contrastavano: per difendere la vera fede Epifanio non esita a mettere in giro contro i nemici le fantasie più nere raccattate chissà dove: deliri orgiastici e pranzi rituali a base di sangue di neonati che ritroveremo migliaia d’anni più tardi ancora sugli scaffali delle librerie dei nazisti. La messa nera come ce la immaginiamo oggi nei film dell’orrore forse l’ha descritta per primo Epifanio. Il quale da buon Padre della Chiesa un po’ si vergognava di allestire questi siparietti scandalistici, ma continuava ad avvertire il lettore che erano necessari. Qualsiasi gossip era necessario, contro il nemico. E i nemici erano dappertutto, per dire Epifanio era uno che se trovava in giro immagini religiose le strappava con sdegno, del resto la Bibbia era molto precisa su quel punto, per dire che anche papa Francesco sarebbe un eretico dal punto di vista di Epifanio.


Origene
Tra le voci che Epifanio contribuisce a diffondere, c’è quella contro Origene di Alessandria, il celebre teologo di due secoli prima. Anche dopo essere stato dichiarato eretico, Origene continuò ad avere ammiratori insospettabili tra cui Girolamo e Ambrogio. Epifanio invece non lo poteva soffrire e inveiva su di lui come Burioni sugli antivaccinisti, nel mentre che raccoglieva le voci più infamanti sui suoi seguaci. Origene, tra le altre turpi cose, si sarebbe evirato per evitare le tentazioni della carne: questa cosa perlomeno raccontavano su di lui i suoi detrattori da più di cent’anni, ed Epifanio non aveva nessun interesse a negarla. Nel Panarion però accoglie un’altra ipotesi, meno nota, e cioè che Origene, invece di tagliarselo, ricorresse a una pozione a base di erbe che otteneva lo stesso risultato: in pratica Origene avrebbe sperimentato su di sé la castrazione chimica e qui finisce il pezzo su Epifanio e comincia il vero pezzo che volevo scrivere, un pezzo sulla castrazione chimica.


In realtà è un pezzo che ho già scritto e mi piacerebbe migliorare, ma non ho tutto il tempo del mondo, come Epifanio, né posseggo la concentrazione di Origene. Inoltre, non so se avete notato come funziona il grande dibattito delle idee su internet: uno ha una serie di argomenti che amerebbe studiare, su cui amerebbe scrivere, ma chi se li leggerà? Chi è che una mattina qualsiasi potrebbe decidere di passare la pausa caffè a leggersi due cartelle sulla castrazione chimica? Nessuno. E così bisogna aspettare. Cosa? Che un politico tiri fuori l’argomento: di solito in campagna elettorale. In sostanza il politico è l’accattone con la fisarmonica, io l’orso che balla. Anche il dibattito politico del resto funziona così ormai, è una specie di contest tra dj che ci fanno ballare, non con le canzoni ma con gli argomenti. Uno tira fuori, che ne so, l’abolizione della povertà, e per due o tre giorni balliamo tutti ah ah ah, abbiamo davvero abolito la povertà? Poi ne arriva un altro con la flat tax (ma a tre aliquote), e ci mettiamo a ballare su quella. Vince il dj con la playlist di argomenti più ballabili, quello che li riesce a mixare eliminando i tempi vuoti – e va da sé che in questo periodo Salvini non ha rivali, è teso come una molla, non ti concede un secondo. Qualsiasi cosa succeda lui ha una soluzione pronta, una parolina magica che risolve: No euro! Flat tax! Educazione Civica e Grembiulini! Case chiuse! Chiudiamo i porti! Qualche giorno fa aveva anche Castrazione chimica, ed è appunto il momento in cui sono andato a riprendermi le mie due cartelle sull’argomento dal mio panarion personale.


Salvini
Quel che mi affascina delle formulette salviniane è che sono davvero promesse elettorali a costo zero: i porti sono già chiusi ai migranti, e Salvini non li ha veramente resi meno accessibili. L’educazione civica si fa già; i grembiulini alle primarie si indossano ancora; la flat tax a più aliquote esiste già; la prostituzione è già legale. E la castrazione chimica? Beh, in Italia la castrazione chimica sarebbe una relativa novità. Con un piccolo dettaglio: che non è una vera castrazione. Non condivide con la castrazione i dettagli che rendono la parola più vivida, più memorabile, più spendibile per un politico che voglia fare la voce grossa e restare in mente all’elettore: non è una mutilazione, non è irreversibile, non è sanguinosa, non è nemmeno una punizione. È una cura ormonale. Che probabilmente non funziona (non basta intervenire sugli ormoni per prevenire i comportamenti violenti), ma notate il paradosso: il tizio che si gonfia il torace proponendo di castrare i maniaci sessuali, in realtà sta dicendo che sono malati e che andrebbero curati (e non imprigionati). E noi che subito scattiamo sdegnati per dimostrare il nostro progressismo, ecco, forse ci facciamo fregare anche stavolta. Davvero saremmo contrari a una cura ormonale come alternativa alla detenzione?

Orwell
Quando usa la parola “castrazione” Salvini evoca nel suo pubblico le immagini violente di forbici, coltelli, tenaglie da norcino. Ce lo conferma il De Mauro Paravia: castrare significa “asportare o far atrofizzare gli organi della riproduzione di un animale”. Asportati o atrofizzati che siano, si dà per scontato che quegli organi siano irrecuperabili. Anche l’accostamento immediato con “chimica”, una bella parola moderna, asettica, non cambia molto il risultato; una mutilazione è una mutilazione anche se al posto della lama di coltello è praticata mediante capsule colorate. Sempre legge del taglione è, quella abolita non già grazie a Beccaria, ma addirittura da Rotari re dei Longobardi. E la discussione potrebbe finire qui: grazie ministro ma l’alto medioevo non c’interessa, neanche nella versione chimica. A questo punto di solito interviene qualcuno con l’argomento ‘il medioevo non ti piace perché non hanno ancora toccato i tuoi bambini’, e la discussione prosegue all’infinito, senza offrire più nessuno spunto di interesse.

La castrazione chimica è una cosa che non esiste. È un nome feroce, che evoca lame arrugginite e barbare mutilazioni, appioppato a una banale cura ormonale senza effetti definitivi. Come andare dal barbiere a “decapitarsi” barba e capelli. O dal dentista affinché ci “amputi” un dente cariato. Allo stesso modo, da qualche anno in alcuni Paesi il condannato per reati sessuali può chiedere di essere “castrato” chimicamente per usufruire di uno sconto di pena. È chiaro? In cambio di un po’ di pilloline tornano fuori prima. E una volta fuori, chi di voi madri e padri premurosi sarà in grado di accertare che il maniaco continui ad assumere la pillolina?


Aveva ragione Orwell: chi controlla il significato delle parole, controlla il Potere. Allo stesso tempo aveva torto: lui pensava che il Potere avrebbe chiamato “libertà” la dittatura, “amore” le torture; per ora le cose vanno in modo diverso. C’è in circolazione una cura (per la verità ancora non molto sicura), per i maniaci sessuali, e il Potere decide di chiamarla “castrazione”, per darsi un tono. Salvini non è un boia che si atteggia a damerino, ma l’esatto contrario. Per rimanere popolare deve fare il gradasso. Certo, se proponesse la libertà anticipata ai pedofili in cambio di una cura ormonale senza effetti definitivi, sarebbe sommerso di fischi. Ma è proprio quello che sta facendo: salvo che la cura ormonale ha questo nome formidabile, “castrazione chimica”. Senti che suono che fa, senti come ti riempie la bocca. E tanto meglio se nel frattempo ti svuota anche le galere, con quel che costa un carcerato.

E funziona? Dipende dai punti di vista. Probabilmente non salva nessuno dalle insidie degli stupratori. Ma come arma mediatica è fenomenale: vuoi mettere quant’è liberatorio e popolare poter affacciarsi al balcone e gridare “castrazione chimica”, ogni volta che una donna o un bambino ci va di mezzo? Tanto più che se si trovasse qualcosa di realmente efficace contro la violenza sessuale, il mondo si svuoterebbe di donne e bambini abusati e genitori impauriti, e a quel punto gridare al balcone non servirebbe più, bisognerebbe inventarsi qualcos’altro. Ma finché c’è un problema vero, e uno slogan efficace, non c’è nessuna necessità di risolvere il problema. No, neanche quello dei vostri bambini, mi spiace.

Forse allora aveva ragione Pasolini, in una sequenza di quel film orribile. Perché mai il Potere dovrebbe mutilare realmente le sue vittime, quando può mettere in scena la mutilazione all’infinito? “Imbecille, non lo sai che vorremmo ucciderti mille volte fino all’infinità possibile prima di ucciderti per davvero?

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La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va

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[Questo pezzo è uscito giovedì su TheVision]. Qualche giorno fa una ragazzina ha chiamato una sua compagna di prima media per spiegarle che non sarebbe venuta a scuola, né quel giorno né mai più. È così che gli insegnanti di una scuola di Nichelino (TO) hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento in un altro comune della sua famiglia: quattro bambini e due genitori armeni provenienti dalla Germania, richiedenti asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in altri casi del genere si era almeno attesa la fine dell’anno scolastico. Ma come dicono al Viminale, “la pacchia è finita”: il Decreto Sicurezza prevede tra le altre cose la riorganizzazione dei Centri di accoglienza, il che a quanto pare significa anche che i Centri che hanno vinto i nuovi bandi devono cominciare a ospitare i migranti da subito.


La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.

Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.



Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.

C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici... (continua su TheVision).



Negli ultimi giorni Papa Francesco ha ribadito che i migranti sono un dono da accogliere con gratitudine, ma il messaggio deve essere sfuggito alle scuole paritarie cattoliche, ben lontane dagli standard di accoglienza delle pubbliche. Le paritarie non hanno nessun obbligo di accoglienza, ma il problema si crea quando i genitori italiani iniziano a iscriverci in massa i loro figli nel timore che la presenza di alunni stranieri nelle pubbliche del loro quartiere possa abbassare la qualità didattica. Il che magari all’inizio non è vero, ma lo diventa quando molte famiglie italiane cominciano a evitare la scuola pubblica, e la percentuale di alunni di origine straniera per classe supera quel 30% che nel 2009 il ministro dell’Istruzione Gelmini aveva fissato come limite massimo.

La ghettizzazione delle scuole pubbliche di quartiere si potrebbe risolvere con una legge che imponga alle scuole paritarie di accettare nelle proprie classi la stessa quota di alunni di origine straniera. Nessun politico ha avanzato una proposta simile, neanche tra coloro che si professano cattolici. Invece è sempre sul tavolo la proposta di eliminare dalla Costituzione un passaggio dell’articolo 37 che non permette di conciliare le scuole paritarie con i fondi ricevuti dallo Stato: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Molti cattolici vorrebbero che l’Italia spendesse di più per sostenere le famiglie che scelgono le loro scuole. Se non lo Stato, almeno la regione, che in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potrebbe assumere direttamente il controllo del settore istruzione nell’arco di pochi mesi, grazie alla riforma delle autonomie regionali.


È triste dover riconoscere che questo tipo di scuole, fondate e portate avanti con le migliori intenzioni, sono diventate un ostacolo all’integrazione. Ma quando in alcuni quartieri delle città italiane esistono classi di soli stranieri, i casi sono due: o l’invasione propagandata dalla Lega è reale, oppure negli stessi quartieri si trova una scuola paritaria finanziata anche con il denaro pubblico dove gli studenti di origine straniera sono una minoranza. Siamo liberi di indignarci e basta, ma vale la pena riflettere, anche in questo caso, sull’aspetto economico della questione: perché lo Stato, che spende già molto meno di quanto dovrebbe per finanziare una scuola pubblica che favorisca l’integrazione, deve destinare ulteriori risorse a un’istituzione concorrente che la ostacola? Le famiglie che vogliono mandare i figli in una scuola con pochi neri (e pochi poveri in generale) non potrebbero pagare tutta la retta di tasca loro? Forse si potrebbero risparmiare fondi per investirli dove servono davvero: nell’istruzione pubblica.
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Stamattina ci siamo svegliati

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Giusto un attimo per ricordarvi che mentre il dibattito quotidiano politico in Italia è impigliato su una ripicca coi francesi, in parlamento si sta per sancire l'autonomia amministrativa di tre delle regioni più ricche d'Italia in materia di istruzione e sanità. Un provvedimento che renderà le scuole e gli ospedali di queste tre regioni decisamente più ricche, e quelle del resto d'Italia considerevolmente più povere.

Un risultato che dimostra la perfetta continuità della Lega di Salvini con quella di Umberto Bossi (che a questo punto rischia di finire nei libri di Storia come il leader politico più influente e importante della Seconda Repubblica); la colpevole cecità del Movimento Cinque Stelle, che come previsto va dove lo portano (dimostrando una volta in più che valeva la pena di portarlo da qualsiasi parte che non fosse la Lega); la connivenza dei dirigenti Pd che, malgrado siano in piena campagna per le Primarie, sull'argomento glissano: forse perché una delle tre regioni è l'Emilia-Romagna.

In mezzo a tutto questo, c'è una realtà che non ha smesso di parlare dell'argomento, nelle assemblee con gli iscritti e nella comunicazione sui quotidiani, e di lasciarlo bene in vista sul tavolo delle discussioni, ed è ovviamente il sindacato. Magari teniamocelo in mente per la prossima volta che a sinistra qualcuno si domanderà a cosa serve – domanda, per carità, legittima e che tutti dovremmo farci ogni tanto. (Tutti, però).

Nel caso del sindacato ho sentito dire che serve a rappresentare le istanze dei lavoratori, e a volte anche a darvi la maledetta sveglia, dormiglioni, qua stanno a smontare il welfare e per voi il problema è se Di Maio sbaglia un aggettivo. Il sindacato intanto oggi sfila a Roma, io non potrò esserci perché non è stato indetto lo sciopero, ma questo blog oggi si considera lì.
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La diabolica strategia mediatica

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(La notte)

"Va bene, adesso interroghiamo. Nizzoli per esempio, che Paese dell'Africa Occidentale portavi? Mi vuoi parlare del Senegal?"
"No".
"No?"
"No".
"Forse la Gambia?"
"No".
"Di cosa mi vuoi parlare, Nizzoli?"
"Della strategia social di Salvini".
"No".
"Credo che Salvini ci stia fondamentalmente trollando, postando contenuti provocatori che dovremmo invece ignorare..."
"Ok, è un incubo, vero? Adesso mi sveglio".
"Per esempio la Nutella..."
"Oppure guarda facciamo così, adesso bussano ed entra un elefante nella stanza".
"O De Andrè..."
"Ma perché no, va bene, fate entrare De Andrè..."


(Al forno)

"Buongiorno, come va?"
"La strategia social di Salvini non va presa sottogamba".
"Eh? No, no certo. Mi darebbe uno sfilatino ai cereali, per favore".
"Questa sua enfasi sul cibo, per esempio, è una chiara rincorsa al pubblico dei talent, e in generale delle trasmissioni sul food..."
"Ho cambiato idea, scusi, lo prendo senza cereali..."
"Ma secondo me sbagliamo a rispondere sempre alle sue provocazioni".
"Anzi no guarda non lo prendo proprio, mi scusi, mi è passata la fame".
"Per esempio, rifarsi a De Andrè..."
"Addio".



(Dal barbiere)

"Come li tagliamo?"
"Beh, corti".
"Sì però non faccia quella faccia".
"Che faccia?"
"Lei ha la faccia di uno che sta per mettersi a parlare della strategia social di Salvini".
"No le giuro no".
"Dicono tutti così, e poi...  Io tra l'altro faccio un mestiere a rischio, non so se la gente ci riflette, ma sono sempre qui con le forbici in mano".
"Eh, mi rendo conto".
"Un giorno o l'altro succederà, capisce? Uno si siede, mi parla della strategia mediatica di Salvini, della Nutella e di De Andrè e io... zac".
"Un solco lungo il viso".
"No anche un po' più sotto guardi".
Drin
"...Allora se preferisce non dico niente".
"Grazie".
Drin
"Ma stanno suonando?"
"Sì, è l'elefante. Ma io non lo faccio entrare".
Drin
"Bravo".
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Il Movimento 5 Stelle ha svenduto la scuola ai leghisti

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Quattro miliardi: questo è quanto il governo prevede di risparmiare sulla scuola nei prossimi tre anni. Non sarà il taglio all’istruzione più clamoroso della storia della scuola italiana, ma è comunque un taglio. L’opposizione non ha dubbi nel definirlo così; anche alcuni sindacati sono piuttosto critici e si preparano già alla mobilitazione – altri sonnecchiano. Per il governo invece no, non ci sarà nessun risparmio: anzi, questa finanziaria spenderà per la scuola persino di più di quanto stava spendendo il governo Gentiloni.



Di fronte a due versioni tanto diverse, si tratta di scegliere: una delle due dev’essere falsa per forza. Qualcuno non dice la verità, il governo o l’opposizione. Un osservatore serio, distaccato, competente, dovrebbe riuscire a capire da che parte sta la ragione. Temo di non essere quel tipo di osservatore. Quella di cui si sta parlando in questi giorni non è la solita manovra discussa e sviscerata. Quella che è approdata alla Camera prima della pausa natalizia è un vero e proprio pacco-sorpresa, che i deputati della maggioranza hanno dovuto scegliere se prendere o lasciare – e chi ha lasciato è già stato espulso. Il dibattito sulla legge è stato, per forza di cose, più superficiale che in passato: anche gli addetti ai lavori hanno avuto meno tempo per sviscerare ogni comma; quel che comunque salta agli occhi, anche a un rapido sguardo, è che scuola e ricerca non sono stati individuati come settori strategici.
Anche se i finanziamenti non dovessero essere sensibilmente inferiori a quelli degli ultimi anni, non si può nemmeno dire che siano sensibilmente maggiori; e soprattutto manca il senso di una direzione: si tira a campare sperando che non crollino troppe scuole e non si facciano male troppi studenti e insegnanti. È un’evidenza che non sorprende nessuno, ma è utile confrontarla con le roboanti promesse elettorali di uno dei due partiti di governo, il M5S. Un anno fa Di Maio prometteva di abolire Buona Scuola e legge Gelmini: siamo ancora lontani. Niente più prove Invalsi: le prove sono ancora lì. L’alternanza scuola-lavoro sarebbe sopravvissuta soltanto su base volontaria: non è andata così. E più fondi, più assunzioni, più contratti a tempo determinato, non solo per gli insegnanti, ma anche per il personale non docente, una categoria molto spesso snobbata anche dai politici a caccia di voti, e che invece è fondamentale per il benessere di tutti i frequentatori delle scuole. A un certo punto il M5S aveva persino ventilato l’ipotesi di abolire i finanziamenti alle scuole private.

Forte di queste promesse, il M5S è andato alle elezioni e ha conquistato il voto di una parte sensibile dei lavoratori della scuola, molti dei quali delusi dal Pd ed esasperati da alcune assurdità burocratiche della Buona Scuola. Poi il M5S è andato al governo e al ministero dell’Istruzione ha installato un leghista, Marco Bussetti. Non l’ultimo arrivato, bisogna ammetterlo: per quanto il suo nome sia conosciuto dal grande pubblico soprattutto per una circolare in cui chiede agli insegnanti di assegnare pochi compiti per le vacanze, Bussetti ha fin qui dimostrato di saper procedere con la sua agenda. Che non è sicuramente l’agenda del M5S – per fare un semplice esempio: i fondi per le scuole private, sotto forma di bonus alle famiglie senza limite di reddito, sono rimasti invariati. La Lega è ormai il più antico partito politico italiano, con una più che decennale esperienza di governo. È la prima volta che si insedia in un Ministero che evidentemente fin qui non aveva mai considerato strategico. Anche in campagna elettorale Salvini non si era particolarmente speso per le scuole: le sue priorità (le conosciamo tutti) erano la sicurezza, la flat tax, la rimessa in discussione della zona Euro. Il fatto che nella complessa trattativa primaverile l’istruzione sia finita nelle mani del partito a cui in teoria interessava meno, la dice lunga su quanto poco gli stessi eletti M5S credessero nelle loro promesse. La scuola pareva il fronte più sacrificabile (continua su TheVision).



Questo rende ancora più penosi gli affanni dei deputati pentastellati che in questi giorni cercano di spiegare una finanziaria che hanno appena finito di leggere, sforzandosi di trovare qualcosa di progressivo negli artifici contabili del ministero. Il tentativo più maldestro è quello di Luigi Gallo, presidente della Commissione cultura, scienza e istruzione, che chiede agli attivisti di condividere nelle università e nelle scuole un video interminabile, amatoriale, in cui cerca di sbugiardare i perfidi giornalisti e il perfido Pd accostando alla webcam numeri che restano sfocati e che comunque no, non gli danno ragione. Quando, dopo aver tergiversato per ben 7 minuti, si riduce ad ammettere che nei prossimi due anni è previsto un calo degli investimenti, si difende ricordando, letteralmente, che per quei due anni “non abbiamo ancora fatto la legge di bilancio”: insomma se i numeri non vi piacciono non disperate, magari l’anno prossimo li cambiamo. Salvo che nell’ufficio dove cambiano i numeri non c’è il povero Gallo, e difficilmente ci sarà l’anno prossimo. Lui al massimo può improvvisarsi youtuber di lotta e di governo: e mentre si sbraccia davanti alla webcam, qualcun altro nella stanza dei bottoni continuerà probabilmente a scegliere dove mettere i soldi. A Gallo e compagnia toccherà spiegare che tra breve le cose cambieranno, ci saranno più soldi per le università, per il tempo pieno anche a sud, e per riportare a casa i precari. Più di così non può fare né Gallo, né in generale la classe dirigente M5S: a chi non ha reali competenze di amministratore non resta che amministrare gli slogan (e amministrarli generosamente). La campagna elettorale permanente è una scelta obbligata, e non è detto che non continui a pagare ancora per un po’. Dopotutto si vota anche questa primavera, per le europee.

Per l’occasione voteranno anche gli insegnanti italiani, e sarà interessante verificare se il M5S avrà già dissolto il capitale di fiducia incassato con le elezioni di un anno fa. Se questo non succederà, non sarà soltanto per la fatica di ammettere di essersi illusi. Il fatto è che tutto sommato questa manovra non tocca gli insegnanti di ruolo; in compenso mantiene in un limbo vergognoso molti collaboratori scolastici e docenti a tempo determinato, tra cui quelli di sostegno. Tutto questo contribuirà a rendere più difficile la vita scolastica per tutti. Può darsi che nell’immediato i docenti di ruolo non ci facciano caso, e che si tratti di problemi, per così dire, sotterranei, che inquinano l’ambiente senza essere sempre percepiti: uno studente disabile che cambia ogni anno il docente di sostegno; o uno studente con abilità speciali che fino a quest’anno riusciva ad avvalersi di un insegnante di potenziamento che il prossimo anno perderà la cattedra; un’ala della scuola che dovrà fare a meno dei servizi (pure indispensabili) di un collaboratore. Le criticità che docenti e studenti avranno sempre davanti sono altre, e purtroppo in molti casi sono ancora identificate con la Buona Scuola di Renzi. La prova Invalsi, l’alternanza scuola-lavoro, i bizantinismi dei Piani Triennali e così via. Tutte queste cose, molte delle quali a ben vedere esistevano già prima dell’arrivo di Renzi, ma che con il lancio della Buona Scuola si sono per così irrimediabilmente incollate alla sua figura – in quel processo di personalizzazione della politica che alla fine ha reso Renzi colpevole anche di aberrazioni che non aveva né previsto né introdotto, ma nemmeno abolito. L’insegnante di ruolo che non capisce la necessità del Piano Triennale o della programmazione per competenze, tendenzialmente non se la prenderà con Di Maio, che pure aveva promesso di abolire tutto questo, per poi defilarsi.

Che lasci la politica o no – in questi ultimi giorni si direbbe di no – Renzi resterà ancora per qualche anno uno spauracchio inevitabile per i docenti italiani: lui stesso del resto ha ammesso più volte di avere sbagliato qualcosa sulla scuola. Anche se, non smette di ribadire, lui nella scuola ci credeva, e in effetti, a guardarla oggi, la sua riforma non era il solito pastrocchio di promesse elettorali e gestione al risparmio delle spese correnti, che continuiamo a fare i conti con lui. La sua Buona Scuola aveva un contenuto ideologico, era qualcosa di cui si poteva discutere e che si poteva criticare (in particolare la pazza idea di imporre un approccio manageriale ai dirigenti delle scuole dell’obbligo). Con leghisti e M5S c’è poco da dire: vogliono semplicemente mandare un po’ avanti la carretta senza spenderci troppo, ma neanche senza scontentare troppi elettori. È una missione quasi impossibile, ma se Bussetti resta a sorvegliare i conti, e se gli agit-prop del M5S continuano a difendere ogni sua scelta, può perfino funzionare.
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Salvini (non guarda più nessuno in faccia)

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Salvini chiude i porti ai poveracci,
Salvini ha già aumentato i morti in mare.
Salvini dà il permesso di sparare;
Salvini ride e sfoggia gli avambracci.

Salvini ai ricchi toglie tasse e lacci,
e anche a Bruxelles non devono seccare:
che lui fa tutto quello che gli pare.
Salvini è il capo, l'hai capito? Stacci.

Ormai non guarda più nessuno in faccia:
anche allo specchio passerebbe dietro
la notte, quando deve andare a letto.

Non è che si vergogni, o si dispiaccia;
arriccia forse il naso e dice al vetro:
"Ma guarda questi stronzi, chi hanno eletto".

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Dove c'è una scuola ghetto, guardati intorno: troverai anche una scuola cattolica

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[Questo pezzo è uscito venerdì scorso su TheVision]. Due bambini nati nello stesso ospedale vivono nella stessa strada. I loro genitori lavorano nello stesso cantiere. Un bambino a settembre andrà nella scuola dell'infanzia del quartiere; l'altro no. Forse dovrà prendere un pulmino e andare in una scuola da qualche parte in provincia, oppure resterà a casa. Il primo bambino, ovviamente, ha la cittadinanza italiana: il secondo no. A chi si chiedeva a cosa sarebbe servita una legge sullo ius soli: a evitare aberrazioni come questa. Non è una proiezione, non è un episodio sporadico: è la situazione in cui potrebbero per esempio trovarsi a settembre più di sessanta bambini a Monfalcone, provincia di Gorizia. Il sindaco non li vuole nelle scuole dell'infanzia statali.

Ovviamente è più complicato di così. Due istituti comprensivi di Monfalcone hanno fissato un tetto del 45% di alunni "stranieri" per classe che taglierebbe fuori appunto una quarantina di bambini. Il sindaco, Anna Cisint (Lega) ha sostenuto la scelta dei due istituti, e a sua volta ha ricevuto il sostegno del suo leader e ministro degli interni, Matteo Salvini. I sindacati hanno fatto un esposto in procura; il ministro dell'istruzione (anche lui d'area leghista) ha cercato di placare gli animi ventilando la possibilità di aprire altre due sezioni. Ma insomma siamo ormai a fine luglio e più o meno quaranta famiglie non sanno ancora se i loro figli di tre anni frequenteranno una scuola dell'infanzia, e quale. È quel tipo di incertezza che può costare un posto di lavoro a un famigliare: se il bambino resta a casa, qualcuno dovrà rimanere con lui. Più facilmente una madre o una sorella. La Cisint teme che accogliendo più "stranieri" le scuole diventino un ghetto.

Metto la parola "stranieri" tra virgolette, perché in molti casi parliamo probabilmente di bambini nati in Italia che una legge un po' medievale considera non cittadini del Paese in cui hanno trascorso i primi tre anni di vita. La Cisint dà per scontato che non siano molto integrati, e se continueranno a restare in famiglia non c'è dubbio che non si integreranno; se poi in famiglia non hanno imparato a parlare in un buon italiano, non è restando in casa che lo impareranno. Tra tre anni in ogni caso dovranno iscriversi alla scuola dell'obbligo, probabilmente proprio negli stessi istituti comprensivi che ora vorrebbero tenerli fuori. Insomma il ghetto è solo rimandato. Non è che il sindaco non se ne renda conto. Lei insiste che i bambini dovrebbero essere assorbiti dalle scuole dei distretti limitrofi. Fin qui non ha ottenuto nulla, ma il braccio di ferro potrebbe andare avanti fino all'inizio delle lezioni.

Sarebbe abbastanza facile accusare la Cisint di xenofobia e razzismo. Di sicuro molti suoi elettori sono xenofobi; lei stessa non sembra impegnarsi molto per combattere questa impressione: qualche mese fa ostacolò la nascita di un centro islamico perché secondo lei "le moschee in Italia non sono previste". È riuscita perfino a espellere lo sport nazionale bengalese, il cricket, dalla Festa dello Sport di Monfalcone. Il caso delle scuole d'infanzia però è più delicato. Quello che propone, almeno in senso astratto, è ragionevole; è la stessa cosa che cercherebbe di fare un sindaco di qualsiasi altra area politica, anche progressista. Non vuole respingere i bambini "stranieri", o nasconderli sotto il tappeto. Vorrebbe semplicemente spalmarli su una superficie più vasta, in modo da favorire l'assimilazione culturale, che preferiamo chiamare "integrazione".

Com'è stato scritto fino alla noia (ma alcuni non hanno intenzione di leggere) l'emergenza stranieri in Italia è tutto fuorché un'emergenza. Non stanno arrivando molti stranieri, in percentuale: il flusso è costante ma stabile. Eppure chi soffia sul fuoco dell'intolleranza ha buon gioco a mostrare come in certe realtà gli immigrati sembra abbiano preso il sopravvento sulla popolazione locale. A una certa ora del pomeriggio sembra che in giro ci siano soltanto stranieri; e anche davanti alle scuole, altro che otto per cento. Gli immigrati tendono a insediarsi a macchia di leopardo, e questo favorisce lo sviluppo di un sentimento xenofobo sia nei quartieri dove gli italiani temono l'accerchiamento, sia in quelle larghe zone del Paese dove gli immigrati sono talmente pochi che vengono ancora percepiti come alieni dallo spazio profondo. Se davvero li si potesse distribuire più uniformemente nel territorio, sarebbe molto più facile integrarli. È in fondo il principio per cui i centri di permanenza sono stati disseminati in tutte le regioni; lo stesso principio per cui l'Italia chiede ai Paesi europei di ospitare quote più alti di richiedenti asilo. In piccolo, è la stessa logica che la Cisint cerca di applicare alla sua Monfalcone. È un distretto industriale che sopravvive alla crisi: gli immigrati sono arrivati perché cercano lavoro, e alla Fincantieri e in altre aziende della zona il lavoro c'è. Che iscrivano i propri figli già alle scuole d'infanzia è una buona notizia; significa che in molti casi lavorano anche le madri, e il lavoro è un fattore cruciale dell'emancipazione femminile. Sempre che ci siano scuole disponibili: a Monfalcone forse non ci sono. Ma sono davvero così tanti, e così prolifici, i lavoratori di cittadinanza non comunitaria in città? (Continua su TheVision)

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Lo Stato deve ricominciare a finanziare i partiti. Seriamente.

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[Questo pezzo è uscito martedì su TheVision]. I Cinque Stelle sono al settimo cielo, o almeno ci tengono a mostrarlo. Hanno sbocciato lo champagne in piazza Monte Citorio, alla faccia della sovranità alimentare. Cosa si festeggia? L'abolizione dei vitalizi, nientemeno. "Per quanto tempo abbiamo aspettato che questi privilegi venissero cancellati! Ora ci siamo!", cinguetta giulivo il vicepresidente Di Maio. In realtà è solo una delibera dell'ufficio di presidenza della Camera, al Senato per ora non cambia nulla. Inoltre i vitalizi sono già stati aboliti da Monti nel 2011, delibera riduce soltanto i vitalizi già assegnati, ricalcolandoli col metodo contributivo. Ah, e forse è incostituzionale. Ma non importa: champagne. Bisogna festeggiare, e bisogna farlo proprio nel momento in cui l'alleato-rivale, Matteo Salvini, soffre di un piccolo problema di liquidità: 49 milioni di rimborsi elettorali alla Lega che non si trovano più. Salvini in questo paio di mesi ha rubato la scena a Di Maio e al presidente del Consiglio, tale Antonio Conte, ma quei soldi sono il suo punto debole. Il decreto sui vitalizi non porta un granché nelle casse dello Stato, ma come mossa propagandistica è un colpo sotto la cintura al leader leghista. Lui non trova 49 milioni, I 5Stelle con una delibera ne hanno già recuperati 40. Champagne.

Salvini in effetti si trova in una posizione difficile. La sua linea di difesa è accusare la Lega di Bossi, ma anche in quel partito Matteo Salvini era un dirigente importante, un eurodeputato già primatista per assenteismo. Quando Bossi e il tesoriere Belsito finiscono nei guai, Salvini quatto quatto fonda una nuova Lega indistinguibile dalla vecchia, che si costituisce parte civile nel processo. Salvini si considera danneggiato da chi ha riempito i conti del partito truccando i bilanci: però continua a incassare centinaia di milioni dagli stessi conti. "Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato", gli scrive l'avvocato di Bossi. Salvini i soldi li ha incassati comunque, e probabilmente li ha anche già spesi. Del resto non si porta un partito dal 4 al 17% in quattro anni gratis.

In tutto questo tempo Salvini non è mai rimasto fermo, anche il suo più acerrimo oppositore glielo deve riconoscere. Si è girato l'Italia in lungo e in largo, mentre a Bruxelles continuano ad aspettarlo invano; a ogni città una felpa diversa, son soldi anche quelli. Ha riorganizzato il partito, ha conquistato la ribalta sulle tv e su internet con campagne virali ed efficaci; tutto questo ha un costo. Il che non significa necessariamente che Salvini abbia speso molto: l'appoggio della Mediaset gli ha senz'altro fornito un grosso aiuto. In generale, poi, tutti i partiti hanno drasticamente ridotto le spese elettorali, e questo può averlo favorito nel momento in cui si trovava un gruzzoletto su un conto e preferiva spenderlo prima che venisse sequestrato. La democrazia italiana è diventata all'improvviso scalabile, e il successo repentino della Lega salviniana e del M5S ne è la prova. Cosa sta succedendo? Perché i partiti hanno smesso di stampare manifesti, organizzare eventi, investire in comunicazione?

Perché mancano i soldi.

Il buco della Lega è solo la punta dell'iceberg. Persino Forza Italia è in difficoltà, Berlusconi non paga più i debiti. Ma prendiamo il PD, erede delle due più radicate tradizioni politiche della Repubblica Italiana: non se la passa bene. Non trova più la sua identità, non trova più la sua unità, ma fa anche una certa fatica a trovare i soldi. Continua a licenziare i propri dipendenti, in un progressivo ridimensionamento che sembra non aver fine. Anche nelle regioni dove è più radicato, le Feste dell'Unità (talvolta ribattezzate "Democratiche") sempre più spesso chiudono in rosso. È il tramonto di un modello che si basava sul volontariato degli attivisti, giovani operai e pensionati, e poi col tempo sempre meno giovani e operai e sempre più pensionati. Era chiaro da almeno vent'anni che le Feste non avrebbero retto il passaggio di consegne a una generazione più precaria e meno attivista: c'era il tempo per trovare nuove forme di autofinanziamento, ma i quadri del PD non sembrano essersene molto preoccupati.

Può darsi che considerassero i ricavi delle feste delle briciole: il grosso delle entrate arrivava dallo Stato, ma ecco: i dirigenti del PD hanno fatto di tutto per ridurre anche quello. Fu il governo Letta, nel 2014, a ottenere dal parlamento la sostanziale abolizione dei rimborsi elettorali. Non era una semplice concessione al pauperismo del Movimento grillino: già in una delle prime Leopolde Renzi sosteneva che il finanziamento pubblico andasse "abolito o drasticamente ridotto". Ma a quel punto dove avrebbe trovato il PD i soldi per fare politica? Guardando alla trionfale campagna di Obama, Renzi chiedeva di favorire il finanziamento privato "attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità". Insomma si immaginava che gli imprenditori gli avrebbero dato una mano contro Berlusconi, che tenerezza – ma in quel momento era in fase crescente, Marchionne si era incuriosito, Farinetti era entusiasta. Sembra passato così tanto tempo (continua su TheVision).


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Storia di un finto povero

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17 luglio – Sant'Alessio (V secolo), povero di rango

Lo trovarono secco nel sottoscala, il mendicante, nella casa del patrizio che diciassette anni prima gli aveva dato riparo. "Anche mio figlio, come te, è in giro per il mondo", gli aveva detto: "ovunque sia, prego che un altro padre gli dia un tetto e un giaciglio per dormire". Quando l'ospite morì, e furono per raccogliere dal pavimento le sue ossa irrigidite, si accorsero che la mano stringeva un cartiglio, e che c'era scritto qualcosa; ma non si riusciva a leggere, il morto non mollava la pergamena.

Ci provarono i medici ad aprirgli la mano, i pompieri e i pretoriani, ormai era diventata una specie di sfida. Alla fine chiamarono gli imperatori Arcadio e Onorio, tutti e due, perché l'autore della leggenda probabilmente non era sicuro su quale imperasse a Roma e quale a Costantinopoli; e in effetti probabilmente all'inizio la storia era ambientata nella nuova Roma sul Bosforo, ma poi un copista si confuse, probabilmente un locale, sai come la pensano: di Roma ce n'è una sola, hai voglia a spiegare che ce ne sono almeno tre. In una versione successiva interviene il Papa direttamente, così è chiaro in quale Roma siamo. Dunque ecco arriva il Papa in questo palazzo sull'Aventino, ah ma quindi è in questa casa che dormiva quel sant'uomo del mendicante? Gli volevano tutti tanto bene. Cos'avete detto che ha nella mano? Un cartiglio? Ecco qui (la mano morta si apre senza fatica). C'è scritto... c'è scritto che si chiama Alessio e che ringrazia suo padre per l'ospitalità.

Al padrone di casa si ferma il cuore.

Il papa all'improvviso si rammenta. "Ma tu avevi un figlio che si chiamava Alessio, no? Quello che mollò la fidanzata davanti all'altare, quando fu? Trent'anni fa? Ma non se n'era andato per il mondo?"

"Alessio, figlio mio".

"Vuoi dire che per tutto questo tempo non l'hai riconosciuto?"

"Figlio mio!"

"Anche lui però poteva dirti qualcosa, eh".

Di tutti i santi del calendario, Alessio è forse quello che capisco meno. Tutti i suoi atti di eroica santità, ai miei occhi di abitante del 21esimo secolo, mi sembrano un mix indigeribile di ingenuità e stronzaggine. Mollare la sposa all'ultimo momento perché Dio è più importante, ok, può succedere a tutti di cambiare idea all'ultimo momento, per fortuna lei ti capisce, condivide la tua scelta di castità e si fa monaca, a questo punto perché non dovresti farti monaco anche tu? No, tu te ne scappi via, posso capire anche questo. Decidi di dare tutto quello che possiedi ai poveri, molto giusto, salvo che sei andato via senza un soldo e quindi sei povero anche tu: se fossi rimasto a casa dei tuoi almeno avresti avuto a disposizione un budget da destinare in imprese benefiche, microcredito eccetera, e invece niente: vuoi combattere la povertà con la povertà, una di quelle cose omeopatiche. Ti è mai venuto in mente che invece potevi metterti a lavorare? In fondo sei un giovane sano, puoi benissimo trovarti un mestiere e poi elargire elemosine a tutti i poveri che incontri, il Vangelo si rispetta anche così – eh, no, dopotutto sei un patrizio romano, o campi nel lusso o fai l'elemosina, ma lavorare è fuori discussione.

Anonimo, Ritrovamento del corpo di sant'Alessio,
XVIII secolo
A un angolo di strada di Edessa di Siria, dove potrebbe stazionare un povero vero, uno che ha problemi seri, un cieco, uno storpio, un lebbroso ci vai tu che per affettare la miseria non ti lavi per anni; e l'espediente funziona, la gente ti annusa e caccia i pezzi d'argento, che poi nottetempo tu dividi davvero coi poveri, e vabbe', se questo è il posto che ti sei trovato nel mondo buon per te; ma a quel punto che fai? Decidi di tornare a Roma. La nostalgia, posso capire. ma incontri tuo padre e non gli dici chi sei. Ti fai ospitare 17 anni da tuo padre, tuo padre che è in pensiero per te e si torce il cuore all'idea che tu sei in giro per il vasto mondo senza un soldo ed è sicuramente colpa sua, è stato il padre peggiore del mondo, se solo potesse avere una seconda possibilità, e tu stai lì per 17 anni e questa seconda possibilità non gliela dai.

E va bene, chi sono io per giudicare, son tre giorni che non telefono ai miei. Però alla fine prima di morire glielo scrivi sul cartiglio, così fa ancora in tempo a guastarsi la vecchiaia dal rimorso che non ti ha riconosciuto – eh no vabbe' ma allora vaffanculo, Sant'Alessio, sei la leggenda di santi più stronza che conosco. Talmente stronzo che sembri vero. Cioè qui non parliamo di draghi che rapiscono fanciulle o dormienti in una grotta o martiri che accarezzano i leoni; qui c'è un hippy di buona famiglia che sembra stato ritratto l'altro ieri. Figurati se non ce n'è stato almeno uno a Roma o Costantinopoli od ovunque, figurati se in mille anni non è mai successo che un giovinastro mollasse la famiglia per fare il barbone, in teoria in giro per il mondo ma ben presto a pochi metri dalla casa dei genitori. I quali magari a un certo punto si erano impietositi e lo ospitavano pure nella mansarda a uso foresteria, magari fingendo di non riconoscerlo perché il ragazzo ha un suo distorto senso della dignità, che non gli impedisce di chiedere scusa a mamma e papà ma non di chiedere moneta sotto il loro portico di casa. Magari ce n'è stato uno sia a Edessa che a Bisanzio che a Roma, che si svegliavano presto senza mettere a posto la cameretta e uscivano in strada a mendicare, e alla fine che gli vuoi dire? Dopo un po' sei parte del paesaggio urbano, il giorno che non ti vedono sulla panchina si preoccupano.

Nausicaa s'imbatte sulla spiaggia in un migrante economico.
La leggenda di Sant'Alessio, che io trovo tanto stronza, era una delle più popolari nell'Alto Medioevo. Serviva probabilmente a spiegare che in ogni mendicante ci potrebbe essere un principe, e quindi come tale va trattato; o anche più di un principe: un figlio nostro. Nei tempi in cui capitava a tutti di aver figli in giro per il mondo, su barchette sospesa sui flutti del Mediterraneo o intruppati in qualche legione a portare la pace dove ancora non la sapevano apprezzare; ma ovunque si fossero perduti, avrebbero potuto contare sull'ospitalità, che è la legge più antica. E che ci riguarda tutti, uomini di terra o di mare: se qualcuno è senza tetto, è figlio nostro. Anche se non fosse mai esistito un Alessio, a un certo punto la leggenda ne produsse almeno uno: il primo che mi viene in mente è San Benedetto Labre, un ragazzo francese che nel Settecento arrivò a Roma a piedi senza lavarsi mai, la sua Vita sembra un servizio di Chi l'ha visto. I romani lo presero in simpatia, decisero che era un santo e che faceva i miracoli. Si vede che sotto i pidocchi era un bel ragazzo, ma in un certo senso aveva il terreno preparato dalla storia di Sant'Alessio. Ma io lo so cosa state pensando, voi tre che siete arrivati fin qui (continua sul Post).
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La guerra di Salvini contro le ONG (e l'umanità)

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[Questo pezzo è uscito lunedì su TheVision ed era stato scritto qualche giorno e duecento morti annegati prima].


Matteo Salvini non sopporta le ONG. "Non toccheranno più un porto italiano", ha annunciato martedì scorso a un convegno di Confartigianato (che forse aveva altre priorità). Non che la cosa abbia molta importanza: in una sola settimana di giugno sono sbarcati più di duemila migranti, di cui appena duecento passati per una nave di ONG. Ecco, quei duecento per Salvini sono uno scandalo, una macchia insopportabile nel uso curriculum di Ruspa Umana. Quanto agli altri 1800, possono accomodarsi: non fanno neanche notizia. Mentre la Lifeline rimaneva bloccata al largo di Malta con 234 migranti, la Maersk ne sbarcava tranquillamente 108 a Pozzallo – ma la Lifeline è la nave di una ONG tedesca, la Maersk è un cargo mercantile: nessuno l'accuserà nemmeno velatamente di trescare con gli scafisti.

È come se gli unici migranti che preoccupano Salvini fossero quelli a cui capita di essere soccorsi dalle ONG. Ricordate l'Aquarius, coi suoi 630 migranti? Dovette affrontare una tempesta e riparare in Spagna, mentre Capitan Ruspa mostrava i muscoli in campagna elettorale twittando #ChiudiamoIPorti; nel frattempo la Guardia Costiera sbarcava 932 migranti a Catania senza che né Salvini né Toninelli trovassero nulla da ridire: insomma i porti sono "chiusi" soltanto per le ONG, e siccome le ONG soccorrono soltanto una piccola parte dei dispersi in mare, i porti sono "chiusi" solo per chi si beve gli hashtag di Salvini. Allontanare le ONG dai porti italiani gli consente di cantare #Vittoria per un'altra mezza giornata, ma non ha nessun effetto misurabile sul fenomeno migratorio: se le navi non governative non possono attraccare da noi, possono pur sempre chiedere soccorso ad altre navi. Che non glielo rifiuteranno.

Il comandante della Guardia Costiera al proposito è molto chiaro: "Abbiamo risposto sempre, sempre rispondiamo e sempre risponderemo a ogni chiamata di soccorso perché è un obbligo giuridico, ma prima ancora morale". È la legge del mare: i naufraghi si soccorrono. Che se ne faccia carico un'ONG o la Guardia Costiera, non fa differenza. O meglio, una differenza c'è, che anche l'elettore salviniano dovrebbe apprezzare: la Guardia Costiera la paghiamo noi. Con le nostre tasse. Ogni litro di carburante, ogni ora di straordinario dell'equipaggio. Le ONG invece si finanziano da sole, senza nulla pretendere dal contribuente italiano. Salvano vite senza chiederci un soldo: questa cosa Matteo Salvini non la sopporta. Piuttosto di fare attraccare l'Aquarius in Italia, preferisce buttar via i nostri soldi facendola scortare dalla Guardia Costiera fino a Valencia. Perché? Storia lunga. C'entra uno youtuber, un libro Mondadori e forse anche un po' Putin (ma non ha senso dare tutta la colpa a Putin).

Prima di raccontarla, fissiamo alcuni punti: le migrazioni nel Mediterraneo non sono un'emergenza (anzi negli ultimi mesi il numero dei migranti è bruscamente calato), ma un processo storico. Non è cominciato a causa del malvaggio Piddì, e non finirà perché Salvini fa la voce grossa con gli interlocutori più piccoli, la minuscola Malta e le minuscole ONG. Né le navi delle ONG, per quanto volonterose, possono essere ritenute responsabili del fenomeno, che non si è intensificato da quando sono in mare. Inoltre a tutt'oggi non risulta che siano colluse con gli scafisti. Probabilmente negli ultimi mesi avete sentito dire il contrario. Da Salvini, che le ha definite "vicescafisti", o da Marco Travaglio, che anche martedì su Carta Bianca parlava di una "collaborazione di fatto" tra scafisti e operatori ONG. È almeno da un anno che ne parla, ma martedì ha precisato che non sta parlando di reati, e che non si aspetta che le indagini "arrestino o colpevolizzino" le ONG. Ne ha parlato molto anche il procuratore di Catania, Zuccaro, anche se confrontando le sue dichiarazioni sembra evidente che col tempo ha corretto il tiro: all'inizio diceva di avere delle prove, ma già da un anno sta parlando di "ipotesi di lavoro". Ultimamente nelle interviste preferisce parlare di reti criminali basate in Africa: non sempre i titolisti se ne accorgono.

Nel frattempo però la procura di Palermo ha archiviato le indagini su due ONG, Sea Watch e Proactiva. La sentenza è importante perché ribadisce che secondo le convenzioni internazionali "le azioni di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in luogo sicuro": se la Libia non lo è, e Malta non sempre collabora, le navi delle ONG hanno tutto il diritto di attraccare in un porto italiano – o perlomeno non commettono un reato provandoci. Sì, c'è una sentenza di un tribunale italiano che dà ragione alle ONG e torto a Salvini e Toninelli (Continua su TheVision).



Per la Proactiva non è nemmeno il primo risultato positivo: già in marzo era caduta un’accusa di associazione per delinquere. L’equipaggio si era rifiutato di consegnare i migranti alla cosiddetta Guardia Costiera libica, e li aveva fatti sbarcare a Pozzallo. Ma il caso più interessante – e ancora aperto – rimane quello della nave Iuventa, proprietà dell’Ong tedesca Jugend Rettet, tuttora sotto sequestro e indagata dalla procura di Trapani. Non solo per la gravità delle accuse (la Iuventa si sarebbe fatta consegnare i migranti direttamente dagli scafisti, che addirittura avrebbero recuperato i gommoni), ma per la modalità con cui sono state prodotte le prove: su un’altra nave non governativa presente in quel settore, la Von Hestia, c’era un agente sotto copertura del Servizio Centrale Operativo della polizia di Stato. L’agente era stato inviato dopo una segnalazione di due addetti alla sicurezza della nave, due ex poliziotti che avevano inviato un dossier anche a Salvini e Di Battista. Secondo quanto riferito dai rappresentanti della Jugend Rettet sarebbero legati a gruppi di estrema destra italiani. Le foto che sono state esibite però non sono la prova incontrovertibile che avrebbero dovuto essere: le intercettazioni incriminanti che Travaglio citava l’estate scorsa si prestano forse a diverse interpretazioni – lo stesso Travaglio, come si è visto, è diventato molto più prudente; la Jugend Rettet nel frattempo ha pubblicato un cospicuo contro-dossier in cui si difende da tutte le accuse. Ora che le altre inchieste sono state archiviate, il caso Iuventa diventa cruciale: è forse l’ultima possibilità di dimostrare che le Ong fanno parte di un complotto criminale per sostituire la popolazione europea – un complotto assai inefficace: al ritmo attuale servirebbero 200 anni.

D’altro canto, chi racconta falsità del genere non ha così bisogno di prove. Gli hashtag funzionano meglio. “Le navi delle #ONG si scordino l’#Italia, stop a #scafisti e mafiosi,” cinguettano gli account filosalviniani. Per ora non c’è una sola condanna a carico di una Ong. Non una. L’unica cosa che hanno fatto è stata salvare vite senza chiedere soldi al contribuente italiano. Ma se Salvini ha scelto di prendersela con loro, non è soltanto per quell’istinto da bullo che fa impazzire tanti suoi elettori. Al mondo siamo sette miliardi e mezzo, e aumentiamo; l’Italia è un ponte naturale tra il Nord ricco e il Sud in via di sviluppo. Salvini sembra abbastanza furbo da rendersi conto che contrastare i fenomeni migratori è come tappare una diga col dito. Ma se le migrazioni sono inevitabili, altrettanto inevitabile risulta la reazione xenofoba che scatenano nella popolazione impoverita: un’ondata pericolosa, ma che ben cavalcata ti può far vincere le elezioni. Bisogna però avere qualche ricetta pronta, almeno una serie di parole d’ordine facili da ripetere, e Salvini se le è procurate: #FlatTax, #NoEuro, #Ruspa, #Censimento, “Via le #ONG”. Basta convincere il tuo bacino di elettori che combattendo una manciata di organizzazioni non governative si contrasta in qualche modo l’immigrazione. Non è nemmeno necessario che anneghino più poveracci: l’importante è che a ripescarli non siano le Ong.

Per quanto balordo possa sembrare, il complotto mondiale delle Ong assolve a una necessità emotiva di molti italiani, non solo elettori di Lega e M5S. Di fronte a un fenomeno migratorio non particolarmente violento, ma che nei tempi medio-lunghi metterà comunque in discussione il nostro stile di vita, chi assume un atteggiamento di rifiuto non vorrebbe sempre sentirsi accusare di razzismo. Ed ecco che qualche giovane comunicatore ti svela che i veri colpevoli di questo complotto sono europei, sono ricchi e sono bianchi: è l’uovo di Colombo. Ora puoi rifiutare le migrazioni senza passare per xenofobo. Non ce l’hai con gli africani, anzi, vorresti tanto aiutarli a casa loro; ce l’hai con gli scafisti che li rapinano, con i vicescafisti che li supportano; con le cooperative sociali che li sfruttano – e se non riesci a rinunciare a un po’ di antisemitismo vecchio stile, puoi anche incolpare di tutto il grande burattinaio, il solito George Soros. Trasformare le Ong nell’obiettivo primario della propaganda leghista e sovranista è in effetti una mossa geniale per essere venuta in mente a uno youtuber che studia scienze della comunicazione. Eppure è così, prima che Luca Donadel pubblicasse il suo primo video in cui spiegava “Tutta la verità sui migranti”, nessuno se l’era presa con le Ong. Anche il libro di Mondadori che Donadel reclamizzava nel suo video, Profugopoli di Mario Giordano, si concentrava sugli abusi delle Cooperative Sociali che gestiscono l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano, il cosiddetto “business dell’accoglienza”, ma non dedicava una sola pagina al ruolo delle Ong nel Mediterraneo. Il ragazzo che nel suo ultimo video attacca Saviano nella sua cameretta, in shorts, prendendo a pugni un cuscino, avrebbe davvero scoperto un argomento che prima in Italia non esisteva. Ma, curiosa coincidenza, esisteva in Russia. Come ha notato Andrea Vigani su Leftwing, la prima nazione europea a dichiarare guerra alle organizzazioni non governative è stata la Federazione Russa; seguita a ruota da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia: le nazioni del gruppo di Visegrad. “In queste prime settimane non sono mancati ammiccamenti del governo italiano al gruppo di Visegrad. Si faccia attenzione perché la guerra alle Ong potrebbe essere un altro passo verso quel modello.”

Lunedì, su la Repubblica c’era un’intervista a un’attivista di una di quelle Ong che Travaglio definirebbe “buone”, quelle che rispettano il codice Minniti e che prima di salvare i naufraghi chiedono istruzioni al Centro di coordinamento. Si chiama Giulia Bertoni, ha 25 anni, studia alla Columbia University, per Salvini e seguaci un po’ filorussi è il bersaglio ideale. Il 18 giugno era di vedetta sulla Seefuchs della Sea Eye, quando ha sentito l’Sos di uno scafo con 120 persone nelle acque libiche, dove le Ong “buone” non dovrebbero entrare. La Seefuchs ha chiamato Roma, a Roma hanno detto di chiedere a Tripoli. Il giorno dopo le 120 persone erano scomparse e Giulia Bertoni non si dà pace. “Io, noi, avremmo dovuto disubbidire al capitano, al direttore della Ong che ci ha ordinato di allontanarci. Ci dovrebbero arrestare per aver ubbidito, per averli lasciati morire. Se volete arrestarci, arrestateci per questo. È come se dei pompieri si fermassero al semaforo di fronte a una casa in fiamme. Se fossimo stati dei privati, la legge del mare ci avrebbe obbligato a soccorrere.”
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Sì, non ho votato il PD; no, non mi sono ancora pentito

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ciao, forse ci conosciamo. Sono più o meno il responsabile di tutto ciò che sta andando storto in Italia negli ultimi tempi. Hai presente quei poveretti in mezzo al mare? Se annegano li avrò sulla coscienza. Ti ricordi qualche settimana fa, quando un ministro dell'economia in pectore non escludeva di uscire dall'euro a causa della "teoria dei giochi" (scrisse proprio così), e lo spread schizzò alle stelle? Sono stato io.

No, non sono George Soros. Neanche sul suo libro paga, fammi controllare – no.

Durante gli ultimi vertici internazionali non hai avuto anche tu la sensazione che l'Italia fosse rappresentato da un prestanome imbarazzato che si tinge i capelli e mette a curriculum anche le visite alla fidanzata? No, sul serio, chi ce l'ha messo a Palazzo Chigi un tizio così? Indovina: sono stato io. E così via. Di' un solo guaio successo negli ultimi due mesi: l'ho fatto succedere io. Proprio io.

Che non ho votato il Pd.

Eppure lo sapevo. Me l'aveva pur spiegato un sacco di gente, con ottimi argomenti. Le scorse elezioni non erano elezioni qualsiasi: stavolta era in gioco molto di più. La nostra permanenza in Europa, l'Europa stessa, la democrazia – la nostra umanità. Ricordo molto bene tutti questi discorsi, rivolti a quel bacino di elettori che in passato aveva votato Pd e che questa volta si sarebbe rivolto ad altre creature: principalmente il M5S, ma non solo. Si tratta di discorsi ai quali sono stato sensibile tante altre volte: benché abbia sempre odiato l'espressione "turarsi il naso" o "votare col mal di pancia", più o meno è quello che mi è capitato sempre di fare, salvo stavolta: e proprio stavolta, guarda che casino ho combinato.

Adesso ogni giorno c'è qualcuno in tv o sull'internet che mi suggerisce di fare autocritica. L'altro giorno Virzì, intervistato dal Foglio, mi ha spiegato che i 5stelle sono fascisti, e che avrei dovuto arrivarci prima – no, non ho votato 5Stelle; ma ho comunque fatto perdere il Pd: avrei pur dovuto capirlo che se perdeva il Pd i 5Stelle avrebbero rivelato il loro fascismo latente alleandosi con la Lega. Queste cose si sapevano già. È un lungo discorso che si può mirabilmente riassumere in una vignetta di Staino, nata apocrifa ma poi confermata dall'autore stesso: "Fascisti, razzisti, incompetenti. Com'è stato possibile tutto questo?" "Sai, mi stava sulle balle Renzi". Insomma tutto questo – la catastrofe umanitaria, lo spread, le figuracce internazionali – è successo perché sono antirenziano.

Magari è davvero così.

Faccio parte di un cospicuo insieme di elettori che non si trovava a suo agio, per usare un eufemismo, con molte delle proposte di Renzi. Appena ci fu l'occasione di farglielo capire (il referendum del 2016), ne approfittai. A quel punto Renzi sembrò fare un passo indietro, ma il Pd a quel punto continuò a sembrarmi un oggetto distante. In particolare la dottrina Minniti mi sembrava indifendibile, e così quando si è tornati a votare non ho votato il Pd. Per molti osservatori avrei comunque dovuto scegliere il meno peggio, il voto utile – è un discorso che capisco, ma a quel punto davvero un voto al Pd non mi sembrava più utile: al contrario, mi sembrava un voto perso... (continua su TheVision).

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La repubblica dei padroncini

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[Questo pezzo è uscito ieri su TheVision]. Ma insomma alla fine chi ha vinto queste elezioni? Fin qui è abbastanza facile indovinare chi le ha perse, a partire da migranti e famiglie LGBT. Per capire davvero chi ha vinto occorre aspettare che si posi il polverone di promesse e false speranze. Dobbiamo ancora capire quante aliquote avrà davvero la cosiddetta flat tax, e se il reddito di cittadinanza dei CinqueStelle non si ridurrà a "una indennità di disoccupazione un poco rafforzata", come l'aveva definita Giovanni Tria prima di diventare ministro dell'economia. È ancora presto per fare supposizioni; facciamole lo stesso. Secondo me hanno vinto i padroncini.

Si sa che i primi provvedimenti di un ministro hanno soprattutto un ruolo simbolico: Di Maio, arrivato al ministero del lavoro, per prima cosa ha mandato a chiamare Sergio Bramini, un imprenditore brianzolo diventato famoso grazie alle Iene perché... è fallito. La sua impresa di smaltimento rifiuti aveva come clienti lo Stato e altri enti pubblici; lo Stato e gli enti tardavano a pagare e Bramini, piuttosto di dichiarare bancarotta, ha ipotecato la casa; col risultato che gliel'hanno portata via, il suo cane è morto in un canile, e adesso Bramini andrà a Roma ad assistere le piccole imprese. A salvare i padroncini, qui nella Padania periferica li chiamiamo così. Non solo perché sono dirigono aziende piccole, a volte più piccole delle auto di rappresentanza con cui vanno in giro (intestate all'azienda). Non solo perché spesso sono i figli, se non i figli dei figli dei fondatori. Sono quelli che vivono ancora in ville contigue al loro capannone. Una siepe separa il giardino con piscina dal magazzino, dallo sguardo dei facchini indiani. I padroncini.

Forse hanno vinto loro. Il primo messaggio che Di Maio ha voluto dare dal suo ministero è: vi salveremo. A Bramini piace la flat tax, che per il piccolo-medio imprenditore in effetti dovrebbe tradursi in una manna dal cielo. Certo, servono soldi ("coperture", le chiamano), dove prenderli? Per il neoministro dell'economia Tria si può benissimo alzare l'IVA (che è già una delle più alte in Europa). La prima imposta che avete pagato da bambini, quando vi davano i due euro per comprarvi il gelato. Non che il gelataio ritenesse sempre necessario rilasciarvi lo scontrino; ma voi l'IVA la pagavate lo stesso, e presto la pagherete un po' di più. Ne va della sovranità dell'Italia, e poi bisogna salvare i padroncini. "Si tratta di una scelta di policy sostenuta da molto tempo anche dalle raccomandazioni europee e dell’Ocse perché favorevole alla crescita e non si capisce perché non si possa approfittare dell’introduzione di un sistema di flat tax per attuare un’operazione vantaggiosa nel suo complesso". Salvare i padroncini. "Falliscono 320 imprese al giorno", spiega Bramini, uno di quei classici numeri che ogni tanto dava Grillo sul suo vecchio blog. Sono più di centomila imprese all'anno, è abbastanza incredibile. Non solo che chiudano: che in Italia ce ne siano così tante. Eppure Eurostat conferma: ancora nel 2014 avevamo il doppio delle imprese della Germania. Siamo la nazione con più imprese in Europa – siamo anche una delle nazioni che cresce meno.

Potrebbe non essere una coincidenza: l'industria italiana potrebbe avere un serio problema di nanismo. Il caso di Bramini in fondo ci racconta proprio che una piccola impresa che vive di commesse statali rischia di essere strangolata a causa di banali ritardi burocratici. Altrove è lo stesso mercato a favorire la fusione e la creazione di imprese più grandi, in grado di far fronte con più efficienza a crisi di liquidità. Da noi no, da noi occorre salvare l'ecosistema dei padroncini. Quel tessuto sociale di capannoni e villette che era un chiodo fisso di Grillo, che è il Nord della bussola di Salvini (e di Bossi prima di lui). Su tante cose Lega e M5S non andavano d'accordo e probabilmente litigheranno presto; ma i padroncini piacciono a entrambi. Una delle prime destinazioni a cui i parlamentari 5S cominciarono a destinare i loro stipendi da parlamentari fu proprio un fondo salva-piccole-imprese. Nemmeno i panda hanno goduto di tanta attenzione. E come per i panda (orsetti vegetariani che mangiano solo bambù e non lo digeriscono neanche bene) è lecito domandarsi se ne valga la pena; se il modello di sviluppo della piccola impresa non sia per caso condannato dall'evoluzione, che in economia si chiama globalizzazione e ultimamente premia chi riesce ad adattarsi a una tendenza mondiale di livellamento dei prezzi delle risorse e della manodopera.

La risposta è scontata: no (continua su TheVision).


La risposta è scontata: no, non ne vale la pena; la piccola impresa è spacciata, e i primi a rendersene conto sono gli stessi proprietari. I più previdenti hanno delocalizzato da anni, in Romania o in Cina; il capannone italiano lo tengono ancora per una questione di rappresentanza, e poi magari c’è ancora una decina di magazzinieri o qualche operaio che attacca l’etichetta Made in Italy fatta in Romania sul vestito confezionato in Cina. Nel frattempo il padroncino è al bar che si lamenta dei politici rapaci, dei migranti che rubano, dell’embargo contro la Russia, dei migranti che invece di rubare lavorano, ovvero rubano il lavoro; e soprattutto della piovra immonda che ha permesso tutto questo, l’Unione europea. Si stava meglio prima. Lui di solito votava Berlusconi, e quand’era deluso da Berlusconi passava a Bossi; adesso non c’è neanche bisogno di chiederglielo, bisogna rialzare gli steccati. Magari anche stampare le lire. Contro la Germania la lira era fantastica: bastava svalutarla un po’ e ti calavano anche i debiti. Bei tempi, Salvini potrebbe reintrodurli per decreto. Il piccolo imprenditore non è scemo, non sempre perlomeno; non crede per forza in tutto quello che dice, ma è bello credere anche solo per un momento che la Valpadana possa resistere ora e sempre contro l’avversario globale che si chiama Economia.

Il padroncino di solito non ha studiato tanto: non ne aveva motivo. Anche chi non era già instradato sull’asse ereditario si trovava comunque già in quella fascia generazionale in cui un laureato guadagnava a trent’anni la metà di un coetaneo che aveva cominciato a lavorare a diciotto. Studiare era semplicemente la scelta sbagliata, e anche oggi, che una laurea fa comodo anche per il concorso alla nettezza urbana, non è che la cultura offra le soluzioni: permette solo vedere meglio i problemi. Sei hai studiato Economia sai bene che la piccola impresa è ormai finita, con o senza euro: conviene scappare. Se invece hai studiato Storia sai, con una relativa sicurezza, che siamo spacciati com’era spacciata Venezia il giorno in cui Vasco da Gama vide le coste indiane: questo però non le impedì di vivere ancora secoli di meravigliosa decadenza, e forse anche noi ne abbiamo la possibilità. Forse l’Unesco potrebbe fare qualcosa per salvare i nostri capannoni, dichiarando il nostro cemento unico al mondo. La Padania, l’Italia, sorgerà come una piccola patria di officine: costruiremo tutto, un pezzo alla volta, i carri armati e gli acquedotti, le mura intorno alle nostre Zone Industriali. Nessuno avrà il diritto di farci la guerra, o meglio, se ci attaccheranno dovranno farlo ad armi pari, con catapulte costruite secondo gli antichi progetti; i turisti verranno non solo a carnevale e saranno felici di travestirsi da cavalieri o Casanova; il cambio con la lira sarà favorevolissimo. E la legge Merlin, non c’è bisogno di dirlo, abolita.
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La partita di giro

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"Oh, ciao, stavo cercando giusto te".

"Ancora".

"Sì, beh, senti, ovviamente è sempre per quei soldi che ti devo, ti ricordi".

"Ancora".

"Sì ma mi è venuta in mente un'altra idea. Questa però è interessante, sul serio, ci ho pensato molto".

"Ancora".

"No, non è la solita idea, questa è diversa. Senti. Siamo usciti dall'ipocrisia. Sappiamo benissimo che io continuerò a chiederti dei soldi".

"Ancora".

"E tu continuerai a darmeli. Sarà sempre così. Lo so io, lo sai tu, lo sappiamo tutti".

"Ancora".

"Però. Però. È anche vero che io un sacco di questi soldi te li devo restituire. Verissimo".

"Ancora".

"Sì, non te li ho ancora dati. Ma pensaci bene. Fa un passo indietro. Non noti niente? Io ti devo dare dei soldi, tu continui a darmi dei soldi. Ci stiamo rimbalzando gli stessi soldi, hai capito?"

"Ancora".

"Insomma è una partita di giro, come si dice".

"Ancora".

"Quindi, se adesso segniamo che te ne devo, per dire, duecento miliardi di meno..."

"Ancora".

"Tu poi me ne darai duecento miliardi di meno, e siamo a posto così, no? Una partita di giro. Bastava pensarci prima".

"Ancora".

"Allora affare fatto? Segniamo duecento miliardi in meno?"

"Ancora".

"Fantastico, lo vedi che a volte le idee migliori vengono ai meno esperti. Adesso, senti, a proposito, oggi pomeriggio devo sempre andare a Bologna..."

"Ancora".

"Ce li hai sempre quei venti euro?"

"No".

"Ma come no, scusa".

"No".

"Aspetta, lasciami capire. Mi stai dicendo che i venti euro farebbero parte della partita di giro?"

"Ancora".

"Ma mettiamoli in un conto a parte, scusa, non è che adesso perché c'è una partita di giro non puoi darmi i soldi che mi servono adesso. Mi servono, lo vuoi capire o no?"

"Ancora".

"Io ho il sospetto che tu non capisca. Sei solo un freddo algoritmo, te ne freghi delle mie reali esigenze".

"Ancora".

"Non mi stai neanche ad ascoltare, in realtà non esisti, sei un'astrazione, sto parlando col nulla".

"Ancora".

"Un nulla a cui devo dare un sacco di soldi, io piuttosto li getterei in un tombino, guarda".

"Ancora".

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Lo sai anche tu (che non te li darò mai più)

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"Oh ciao, ti stavo giusto cercando".

"Già".

"Ti ricordi quei soldi che ti devo..."

"Già".

"Senti, io ci ho pensato molto, e secondo me è ora di uscire dall'ipocrisia".

"Già".

"Cioè lo sappiamo tutti, no? Lo sappiamo tutti che non riuscirò mai a darteli".

"Già".

"Ormai è solo un numero, capisci, un numero astratto che non ha più importanza, potrebbe essere il doppio, potrebbe essere la metà, non ha più tante importanza, no?"

"Già".

"E se dicessimo che è la metà?"

"Già".

"No dai non fare così. Veniamoci incontro. Diciamo che lo abbassiamo di un quarto. Di un quinto".

"Già".

"Duecentocinquanta miliardi. Dai. Tanto lo sai benissimo che non te li darò mai. Dove li trovo? Si tratta solo di... di... di accettare la cosa, ecco, di uscire dall'ipocrisia".

"Già".

"Quindi siamo d'accordo?"

"Già".

"Ecco, vedi? È stato facile. Siamo usciti dall'ipocrisia".

"Già".

"Adesso vado, anzi, senti, scusa, oggi pomeriggio dovrei andare a Bologna, non è che hai venti euro da anticiparmi..."

"No".

"Come no?"

"No".

"Ma certo che ce li hai venti euro, scusa, tu ce li hai sempre".

"Già".

"Ma scusa, proprio adesso che siamo usciti dall'ipocrisia, non mi fai andare a Bologna, cioè non riesci a trovarmi venti miseri euro? Forse credi che non te li restituirò?"

"Già".

"Alla Germania li avresti dati".

"Già".

"E a me no!, vedi, allora lo ammetti".

"Già".

"È tutto un complotto contro di me! I miei genitori hanno fatto tanti debiti e tu te la prendi con me!"

"Già".

"Ma non ti vergogni?"

"Già".
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Se non bombardi sei isolato in Europa, dice il Pd (lo dice davvero)

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Ora può anche darsi che il Movimento 5 Stelle sia una setta di improvvisatori che nella stanza dei bottoni farebbe soltanto danni. Può benissimo darsi. Mentre la Lega è la solita cricca populista, razzista e ultimamente pure filoputiniana: sono abbastanza d'accordo che sia così. Mentre il Pd, quel che resta del Pd, dovrebbe essere il partito responsabile eccetera. Va bene. Però a questo punto, caro partito adulto e responsabile che ha deciso di stare fermo un giro per far giocare gli irresponsabili, spiegami una cosa: perché lasci fuori in giro un tizio come Andrea Romano senza guinzaglio o museruola? A rischio che vada a un talk show ad abbaiare cose?


Cioè mi rendo conto che "abbaiare" è un po' forte, ma come si fa infilarsi in un guaio del genere? Che Salvini sia stato filoputiniano (come lo era Trump prima di entrare alla Casa Bianca, e tuttora ogni tanto gli sale il riflusso) non c'è dubbio, e forse un buon comunicatore politico a questo punto non sbaglierebbe a farlo notare. Che abbia sostenuto Saddam Hussein è ridicolo, una fake news grossa come una casa, il modo più spiccio per mettersi dalla parte del torto. Ma questo è solo un piccolo dettaglio. Con questa meravigliosa abbaiata ponderatissima dichiarazione, Andrea Romano è riuscito a sembrare meno serio di Salvini e più guerrafondaio di lui. E dici: pazienza. Magari non ha il polso del suo elettore-tipo, sai questi giovani geni quando bombardavamo il Kossovo e ci ammazzavano a Nassiriya stavano studiando sodo, sodissimo, e si sono persi le manifestazioni. Recupererà. Crescerà. Eh, ma in calce c'è già scritto: Partito Democratico. Cioè in attesa di sapere chi sta dirigendo il Partito Democratico, la linea agli esteri la ulula Andrea Romano in tv, con questi meravigliosi risultati.



Ovviamente, poche ore dopo non si è mossa soltanto la cancelliera Angela Merkel, per farci sapere che non ha nessuna intenzione di partecipare a un bombardamento della Siria (e non ci voleva molto a immaginarlo, visti i precedenti: ma ecco, pare che l'esperto di Esteri on. Andrea Romano non li conosca). No, a poche ore da questo fantastico tweet ufficiale del Partito Democratico, il capo del governo Gentiloni ha chiarito che "l'Italia non parteciperà ad azioni militari in Siria". Per dire quanto rischia di restare isolata la posizione di Salvini.

Il quale Salvini fin qui che io sappia ha dichiarato soltanto: "Che qualcuno pensi ad una terza guerra mondiale farneticando di bombe e di missili sulla pelle di donne e bambini è assolutamente impensabile". Notate: non propriamente detto che la Siria non ha usato armi chimiche (ma chi non ci vuole credere penserà che Salvini gli dà ragione). Ha invece senz'altro detto che è impensabile scatenare la terza guerra mondiale per questo. Io penso che Salvini sia il leader di una cricca populista fascista e putiniana: mi addolora molto notare come risulti molto più professionale degli attuali portavoce del Pd. Più misurato, più affidabile, temo persino più responsabile – non che ci voglia tantissimo, eh: basta non precipitarsi a bombardare appena Trump e Macron dicono che è il caso. No, basterebbe pochissimo, ma quel pochissimo il Pd in questo momento non ce l'ha. Ha Andrea Romano.
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Di Maio e Salvini: due populisti inconciliabili?

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In seguito magari avremo il tempo per domandarci se un governo M5S-Lega sarebbe stato evitabile: se l’asse tra le due forze populiste non si sarebbe potuto in qualche modo scongiurare. Fin qui però l’impressione è quella opposta. Anche perché chi avrebbe ancora qualche carta in mano per evitare un accordo tra Salvini e Di Maio sembra deciso a non volerla giocare. Berlusconi e il Pd, in particolare, sembrano ormai rassegnati, se non sollevati, all’idea che i populisti e i sovranisti assumano il controllo delle operazioni. Il Pd li guarderà dalla sponda del fiume, mentre Berlusconi addirittura potrebbe appoggiarli.



Berlusconi, lo si è visto nei giorni delle elezioni dei presidenti di Camera e Senato, è un po’ troppo sfibrato per mettersi contro un’ondata che avanza. E poi lo conosciamo: a lui le ondate piace cavalcarle, e proverà a montare anche su questa. Finirà probabilmente disarcionato, ma è la sua natura. Per ora i tg Mediaset hanno smesso di soffiare sull’emergenza criminalità e l’emergenza invasione, un segno abbastanza eloquente. Quanto al Pd, non è proprio sull’Aventino, ma poco ci manca. La linea è ancora quella del segretario dimissionario, ovviamente riassunta in un hashtag: #ToccaALoro. Lasciamoli governare. Vediamo quello che combinano. Sottinteso: non riusciranno a combinare niente, e molto presto ci ricondurranno alle urne. Questo per ora sembra essere l’unico schema del Pd – è anche l’unico schema che preveda una sopravvivenza politica di Matteo Renzi. Ma sembra più il frutto di un’infantile fantasia di rivalsa che di una serena valutazione delle forze in campo. L’idea è che la miscela di Lega e M5S sia talmente instabile da deflagrare prima di trovare un suo equilibrio, come successe per esempio al primissimo Polo delle Libertà del 1994, quello che si spezzò nel giro di sei mesi, portando alla vittoria elettorale dell’Ulivo di Prodi, due anni dopo. Al Pd sembrano pensare che stavolta tutto esploderà anche prima. Eugenio Scalfari su l’Espresso ha aperto i dialoghi di Platone e ne ha tratto auspici favorevoli: facciamogli scrivere una legge elettorale (un’altra!), e poi via che si torna alle urne, anche a ottobre. C’è da dire che lo Scalfari divinatore non va sottovalutato, predisse anche la rielezione di Napolitano al Quirinale. Anche lui sembra convinto che il populismo sia un fenomeno passeggero, intrinsecamente instabile, che appena gli dai un po’ di corda si impicca. Ma alla prova dei fatti non è mai andata così... (continua su TheVision)

I leghisti sopravvivono ad alterne fortune da quasi trent’anni ormai, e il M5S è decisamente più solido di quel che sembrava a prima vista. I suoi avversari hanno sempre amato pensare che si sarebbe contentato di restare all’opposizione, e che non avrebbe retto alla prima prova dei fatti. Ma ci sono sindaci M5S che ormai stanno serenamente terminando il loro primo mandato, e che probabilmente saranno confermati. Anche quando entrano in rotta col Movimento (come Pizzarotti a Parma, o Marco Fabbri a Comacchio), gli elettori continuano a preferirli alle alternative di centrosinistra e centrodestra. A Livorno c’è ancora Filippo Nogarin, a Torino Chiara Appendino e a Roma è ormai chiaro che la giunta Raggi durerà più di quanto è durata la giunta Marino. Insomma malgrado incidenti di percorso anche gravi, il M5S non perde il sostegno dei suoi elettori nei municipi. Perché dovrebbe perderlo quando comincerà a occupare qualche ministero? Non è poi così difficile trovare ministri più simpatici di Pier Carlo Padoan o di Valeria Fedeli, e non devono essere per forza più capaci. Se saranno giovani e abbastanza telegenici gli elettori perdoneranno volentieri l’inesperienza.

C’è anche chi, pur riconoscendo la stabilità degli ingredienti Lega e M5S, ritiene che la miscela si riveli esplosiva. Benché condividano qualche battaglia e qualche parola d’ordine, Lega e Movimento hanno proposte inconciliabili (flat tax e reddito di cittadinanza), espressioni di classi in conflitto (il nord industriale umiliato dalla crisi, il centro-sud piagato dalla disoccupazione). Insomma non funzionerà, non durerà. Come si diceva una volta: le contraddizioni scoppieranno.

Da parte mia non dico che non sia prevedibile e persino auspicabile; e capisco anche chi, giocando al tavolo di Salvini e Di Maio, a questo punto ha una gran voglia di scoprire il bluff. Ma questo non è un normale giro di poker, è la politica italiana: un gioco alquanto più subdolo in cui le contraddizioni tendono a non scoppiare mai, anzi. Il Pd era liberista e socialdemocratico, Berlusconi era miliardario e populista, la Balena Bianca di Moro e Andreotti era conservatrice e (moderatamente) progressista, Mussolini era nazionalista e socialista, e così via. Potremmo risalire fino a Cavour, fino ai Gracchi forse, dappertutto contraddizioni che invece di scoppiare si ingrossano fino a schiacciare gli avversari. Lega e M5S sono le due facce, solo in apparenza inconciliabili, di un unico movimento, che assume diverse incarnazioni in tutta Europa e in Nord America, e che per comodità chiamiamo populismo – la parola più giusta potrebbe essere “sovranismo”. Da Trump a Orban lo schema è simile e prevede l’arroccamento nei propri confini geografici e psicologici, insieme con l’individuazione di un nemico che minaccia la nostra integrità e ci impedisce di essere grandi come nei bei tempi andati. Make America Great Again, grida Trump; l’Italia torni a essere la prima potenza europea, echeggia Salvini senza preoccuparsi troppo del senso del ridicolo. Di solito, però, il nemico individuato è sia esterno che interno: i nemici della grande America di Trump non sono soltanto la Cina e l’Iran ma anche i democratici che hanno stretto con Cina e Iran patti vergognosi.

Anche in Italia i populisti hanno proceduto da tempo all’individuazione del nemico: ma il nostro caso è particolare perché invece di coagularsi intorno a un solo polo, come negli Usa e altrove, c’è stato un curioso sdoppiamento. Da una parte un populismo endogeno, che si è raccolto intorno al M5S e cerca i nemici del popolo esclusivamente al suo interno, identificandoli nella Ca$ta dei politici corrotti e collusi. Dall’altra un populismo esogeno che ha occhi solo per le minacce esterne, vere o presunte (l’Euro, la tecnocrazia di Bruxelles, Soros, Bilderberg); i suoi ispiratori per un po’ hanno pascolato anche nei territori grillini, ma ormai sono stati quasi del tutto reclamati dalla Lega di Salvini. Così succede che nei momenti più propizi per dare addosso agli immigrati, gli uomini di Grillo si sottraggono mostrando spesso il lato più umano (votarono per depenalizzare la clandestinità); viceversa ogni volta che si scoperchia qualche scandalo romano, i leghisti si dimostrano molto meno arrabbiati, molto più garantisti dei grillini – in fondo in trent’anni almeno una tangente l’hanno presa anche loro.

Messi insieme, Grillo e Salvini produrrebbero il populista perfetto: sarebbe davvero una gran fortuna se si rivelassero inconciliabili. Ma è più facile immaginare che siano complementari, e che lo sdoppiamento tra populisti endogeni ed esogeni sia stato causato, piuttosto, dall’altra grande anomalia italiana, Berlusconi. Quel che ha allontanato fin qui leghisti e grillini, infatti, non è un destino ineluttabile, ma la figura dell’ex capo supremo del centrodestra italiano: sostenuta dai primi, invisa ai secondi. E ora che Berlusconi tramonta, c’è il grosso rischio che i populismi apparentemente inconciliabili di Salvini e Di Maio si svelino complementari. Un pericolo che gli avversari dovrebbero sventare a ogni costo. Ammesso che ci siano avversari, ormai.
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Tre partiti in cerca di autore

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(Ieri mattina ho trovato in homepage su TheVision un pezzo dal buffo titolo L’ODIO E L’INVIDIA VINCONO SEMPRE SULL’AMORE; ovviamente ho cliccato e ho scoperto che l'avevo mandato io, un paio d'ore prima; era già un po' vecchio e adesso lo è di più).


Com’era ampiamente prevedibile, l’unica cosa che ci è dato sapere dopo queste elezioni è che in Italia non c’è una maggioranza. Non è una novità, anzi: con questa legge elettorale era l’unico risultato possibile. Nel momento in cui scrivo le proiezioni danno il Centrodestra al 37,5% (con la Lega oltre il 17%, record assoluto, tre punti sopra Forza Italia), il M5S quasi al 32% (il che lo porta a essere il primo partito), il Centrosinistra al 23% col Pd quasi al 19%, minimo storico. Dunque malgrado la comprensibile esultanza del M5S, ha vinto il Centrodestra – e all’interno del Centrodestra, la Lega di Matteo Salvini, che in una legislatura ha quadruplicato i suoi voti. Questo è uno dei dati più importanti, forse il più cruciale: Salvini ha ottenuto un successo clamoroso e l’ha ottenuto anche cannibalizzando il suo partner più importante, Silvio Berlusconi. A questo punto, in teoria, il leader di centrodestra è il leghista (c’era un accordo esplicito, tra i partiti della coalizione: il partito più votato avrebbe espresso il candidato premier). Secondo la prassi istituzionale, il presidente Mattarella dovrebbe offrire l’incarico a lui. Ma quante possibilità ha Matteo Salvini, segretario della Lega (ex Nord), di formare un governo?

Forse adesso è più facile capire quel fuori-onda di qualche giorno fa, in cui Salvini affermava di sperare in un Pd al 22%. Salvini in questi anni ha prosperato, vendendo ai telespettatori rabbia e odio. Ha promesso di ruspare i campi rom ; di respingere i barconi; ultimamente ci ha avvertito di voler vietare l’Islam. Tutte queste cose, Salvini non può realizzarle davvero: non solo perché sono in effetti misure disumane e incostituzionali, ma soprattutto perché una volta esaudite queste promesse, Salvini non saprebbe che altro promettere. Probabilmente sperava di poter rimanere il protagonista dell’opposizione (se Berlusconi fosse riuscito ad arrivare al 20% da solo e a trovare un accordo con Renzi); oppure, se il centrodestra fosse arrivato al 50%, avrebbe potuto portare la Lega in un governo, ma in una posizione subalterna, come la Lega di Bossi che chiese per dieci anni a un governo Berlusconi il federalismo fiscale e poi si accontentò di aprire qualche ministero a Mantova. Ma se sale a palazzo Chigi, Salvini deve passare dall’arte di promettere alla scienza del mantenere. E a proposito di promesse: molti suoi elettori si aspettano che ci faccia uscire dall’Euro. L’ha promesso varie volte – sempre meno convinto, va detto – ma è quello che molti suoi sostenitori si augurano. A quel punto però si ritroverebbe in conflitto con lo stesso Berlusconi: una situazione interessante (magari improvvisamente i canali Mediaset smetterebbero di pompare l’emergenza criminalità-migranti, che alla fine ha favorito l’elemento più estremista della coalizione ai danni di chi quei canali li possiede e ci mette i soldi). Potrebbe, certo, proporre un accordo di governo al Movimento Cinque Stelle. In teoria sarebbe la maggioranza più stabile, sia alla Camera che al Senato. Ma solo in teoria.

Nella pratica, il M5S si trova nella situazione speculare a Salvini: anche loro vendono un prodotto, e non è nemmeno un prodotto così diverso; ma non sempre ha senso mettersi d’accordo con la concorrenza. Basta guardare la cartina: non era forse mai successo nella storia della Repubblica che due partiti si dividessero il territorio in modo così netto. La Lega è il partito delle fabbrichette del nord umiliate dalla globalizzazione e dall’Euro; il Movimento è il partito del meridione depresso e disoccupato. La Lega vuole la flat tax, cioè sborsare di meno; il M5S vuole il reddito di cittadinanza, ovvero intascare di più. Possono mettersi d’accordo? Fino a settembre, magari: poi c’è la finanziaria, e ciao. Entrambi vogliono uscire dall’Euro, a parole: nei fatti, l’uno può fornire una comoda scusa all’altro per non realizzare mai nemmeno questa promessa. Basta che Di Maio affermi “mai con Salvini, è un razzista!” e Salvini “mai con Di Maio, è un populista!” ed entrambi possono rimanere padroni dei rispettivi feudi elettorali, senza troppo compromettersi con la realtà. A quel punto però la realtà chi la può gestire? Una coalizione dei disperati, PD + Forza Italia + Fratelli d’Italia + chiunque ci sta? Anche questa sembra una combinazione troppo instabile.
In particolare, ci sono tre partiti che insieme potrebbero costituire una solida maggioranza, e che stanno per perdere la loro identità pre-elettorale: ormai sono anonimi contenitori di parlamentari.
Il primo è Forza Italia, ormai niente più che il marchio privato di un anziano signore che ha ancora un seguito notevole nel Paese, ma residuale. Potrebbe anche essere stata la sua ultima corsa: molti suoi eletti, una volta installati in Parlamento, non potranno che cercare un migliore offerente. In questi casi si privilegia sempre la stabilità, una cosa che Salvini coi suoi contenuti esplosivi non può offrire. Bisogna guardare altrove (continua su TheVision)

Il secondo contenitore anonimo è il Movimento Cinque Stelle, che dopo aver perso il suo guru Gianroberto Casaleggio negli ultimi mesi ha divorziato persino da Beppe Grillo, e ha vinto le elezioni lo stesso. Ora in cabina di comando c’è Casaleggio Junior, che conosciamo ancor meno del padre: con lui però c’è stata un’evidente normalizzazione del Movimento. Anche la mossa – tanto criticata – della presentazione di una lista di governo mandava un segnale preciso: non siamo disfattisti, stavolta siamo pronti a governare e anche a collaborare. Alcuni ministri-ombra del M5S erano ex sostenitori di Renzi: più espliciti di così, Casaleggio e Di Maio non potevano essere.

Perché a sinistra del M5S c’è il terzo contenitore in cerca di identità: il Pd post-renziano. Quando Renzi lo rilevò, il Pd valeva 10 milioni di voti, che nel 2013 sembravano una batosta. Con lui al timone alle Europee dell’anno successivo volò al 40%, ma si trattò in parte di un effetto ottico: aveva preso appena un milione di voti in più. Per contro forse gli capitò di sopravvalutare la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, quando comunque più di 13 milioni di italiani votarono sì alle sue proposte di riforma. Il vero crollo è avvenuto nei mesi successivi e oggi l’elettorato del Pd si ferma davvero intorno ai 7 milioni, con intere porzioni dell’Emilia e della Toscana che lo abbandonano. Non si può nemmeno puntare il dito sugli scissionisti di Liberi e Uguali, che ambivano a un risultato a due cifre e non arriveranno al 4%. È tutta la sinistra, dalla più moderata alla più radicale, a essere sconfitta, malgrado i risultati non tutti disprezzabili ottenuti negli ultimi cinque anni. Il problema è che dall’altra parte c’era chi soffiava sulle paure più basilari, chi raccontava di un assedio e di un’invasione: su internet, certo, ma soprattutto in tv (e sui giornali, e sui libri).

In un qualche modo, Renzi pensava che avrebbe ovviato il problema forse soltanto grazie alla sua brillante personalità: in un primo periodo probabilmente fraintese la benevolenza con cui veniva trattato anche dai media berlusconiani, forse lo scambiò per fair play e lo diede per scontato. Renzi non è il primo leader della sinistra a farsi fregare dalla controparte, ma a questo punto sarebbe maramaldesco infierire. Di solito a quest’ora aveva già pronunciato uno di quei concession speech che appassionavano tanto i suoi ammiratori; per come si sono messe le cose faccio persino fatica a immaginare che riesca a restare in Parlamento, dove è stato eletto per la prima volta, ma a far cosa? Ad ascoltare gli altri che parlano? Si annoierà subito. Dopo la sconfitta al referendum, invece di ritirarsi come pure aveva promesso, ha trasformato il Pd nel suo comitato elettorale: ora, senza di lui, anche il Pd non è che un involucro in cerca di identità. Un Pd renziano non potrebbe mai allearsi col M5S: ma un Pd post-renziano, cosa avrebbe da perdere? Di Maio potrebbe limitarsi a imporre l’allontanamento di Renzi – la pelle di un orso già caduto. La base del M5S si lamenterebbe? Si è già visto durante le parlamentarie quanto poco i vertici M5S si preoccupino dei rumori della base e di Rousseau. E persino se ci fosse una piccola scissione, si potrebbe tamponare coi voti dei forzisti post-berlusconiani, anche loro in libera uscita. Tutto questo stamattina può sembrare fantascienza: ma anche un governo Pd + Forza Italia sembrava impossibile all’indomani delle elezioni di cinque anni fa: finché Enrico Letta non giurò al Quirinale. Se cinque anni fa è successo davvero, da oggi può succedere tutto. Almeno viviamo in tempi interessanti.

Chiedo scusa se non uso il tono depresso che è di prammatica, tra persone di sinistra (io sono di sinistra) ogni volta che la sinistra perde (perde anche quando vince, ma oggi perde proprio). Non so neanch’io perché non riesco ad abbattermi, forse ho sofferto troppo una sconfitta precedente e ormai non sento il dolore. Oppure mi ha tirato su il morale Potere al Popolo. È che a un certo punto della maratona notturna, dopo aver intervistato un frignosissimo esponente di Casapound che riusciva soltanto a recriminare di essere stato poco in tv, Mentana ha dato la linea al quartier generale di Potere al Popolo, una lista che ha preso appena il doppio di Casapound – non che il doppio di uno zero virgola sia un granché – ma evidentemente non se lo aspettavano: festeggiavano più loro dei leghisti. È che abbiamo bevuto, ha spiegato la portavoce Viola Carofalo: “e continueremo a bere”. Ecco, beviamoci sopra.
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Fuori dall'Italia i libri sacri anticostituzionali, dai

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Giura sul Vangelo, sfoggia un rosario: ma chi è questo nuovo integralista cattolico che avanza da destra? L’ex comunista padano, Matteo Salvini in un comizio a Milano ha giurato di “applicare davvero la Costituzione rispettando gli insegnamenti del Vangelo”. Un libro sacro e una costituzione laica possono andare d’accordo? Tutto sommato sì. È Salvini che non sembra c’entrare molto con entrambi: ce lo vedete nel Vangelo, a scacciare con la ruspa il Buon Samaritano? O tra gli apostoli a polemizzare con Gesù Cristo che rifiuta di prendere una posizione coerente contro l’Unione Europea del tempo, l’Impero Romano? Quanto alla Costituzione, basta aprirla a pagina uno: l’articolo 8 dice che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge, ok, che problema c’è? C’è che appena una settimana fa Salvini, a “Speciale Fatti e Misfatti” (TgCom24), ha dichiarato che una volta al governo metterà “lo stop”, “il veto”, a “ogni presenza islamica organizzata, regolare o abusiva in Italia”. Insomma, se vince Salvini i musulmani non potranno né organizzarsi né nascondersi: dovranno levare le tende? Sono quasi due milioni, di cui trecentomila cittadini italiani: è difficile pensare che il leader leghista stia parlando sul serio. Il suo punto di vista merita comunque di essere discusso, se non altro perché è condiviso da una parte della popolazione ormai maggioritaria: “L’Islam è incompatibile con i nostri valori e la nostra cultura,” afferma. “L’Islam applicato alla lettera, il Corano applicato alla lettera […] sono atti di violenza”. Il che peraltro è vero.






Momenti di preghiera nelle città di Torino, Milano e Roma

Esatto, ho appena dato ragione a Matteo Salvini.
Applicare il Corano alla lettera sarebbe senz’altro un atto di violenza. Basta leggere qualche versetto, per esempio quelli sulla condizione femminile. È un libro che comincia con Allah che dice alla prima donna: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (GE 3,16). In un’altra sura si legge: “Dalla donna ha avuto inizio il peccato: per causa sua tutti moriamo” (SI 25,24); “se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza” (SI 25,26). Non è certo tra queste pagine che troveremo anche la minima ispirazione all’emancipazione femminile: (“Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo”) (SI 25,21).



Persino nella preghiera comune le donne sono ghettizzate: “Non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in pubblico” (CO I 14,34-35). Da queste pagine nasce anche il barbaro costume del velo: “L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Allah; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli” (CO I 11,5-10). Il profeta: non concede “a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia” (TI I 2,12-15).






Se, malgrado tanta modestia e tante barriere, un uomo riuscisse comunque a vederla e a desiderarla, il consiglio del Profeta è dei più drastici: “Vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi organi, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna” (MT 5,28-29). Che altro dire? Il Dio del Corano è un Dio della guerra (“Non sono venuto a metter la pace, ma la spada”), determinato a portare la sua jihad fin dentro all’istituzione famigliare (“Sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera”). Un libro del genere, se applicato alla lettera, non può che ispirare atti di violenza e di prevaricazione.
Quindi Salvini ha ragione. Bastano anche solo i versetti che ho citato per dimostrarlo.

Salvo che... (continua su TheVision)
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Bagnai, il leghista che ti boccia in economia

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Sabato scorso, mentre un militante ed ex candidato della Lega si faceva arrestare a Macerata dopo aver ferito più di una mezza dozzina di residenti africani, e tutti si domandavano come avrebbe reagito Matteo Salvini io mi sono sorpreso a chiedermi: e Bagnai? Come la prenderà Alberto Bagnai?
Salvini poi non ci ha messo molto a farsi sentire, spiegando in sostanza che se aumentano i neri è normale che aumenti anche la gente che ci fa il tiro al bersaglio in strada. Non che ci si aspettasse da lui qualcosa di più fine: ugualmente c’è da domandarsi se si sia mai toccato un punto così basso, in una campagna elettorale, nella storia della Repubblica. Un tuo militante va in giro a sparare alle persone: è colpa delle politiche migratorie, ok. Nel frattempo Alberto Bagnai (economista e candidato al Senato per la Lega in Abruzzo, Lazio e Firenze) si limita a chiedere ai suoi seguaci di “ignorare le provocazioni”. Forse per puro caso, sul suo blog è campeggiata ancora per due giorni una domanda retorica formulata il giorno prima della tentata strage: L'immigrazione è la prosecuzione della deflazione con altri mezzi? 
Chi ha una minima familiarità con gli argomenti di Bagnai non può avere molti dubbi sulla risposta: sì, ovviamente i fenomeni migratori fanno parte di un più vasto complotto per indebolire l’economia italiana ‒ “Il nostro paese è stato distrutto da quelli che ci propongono come panacea i lavoratori altrui (dopo averci proposto come panacea la moneta altrui)”. Non è sorprendente che Bagnai parli così. Non è sorprendente che un leghista parli così.
Insomma qual è la sorpresa?
Che Bagnai sia un leghista?

Lui stesso nel suo blog ammette che chiedere a molti affezionati lettori di votare Lega sia imporre uno “strappo lacerante con la propria storia politica”. Eppure Bagnai è in buoni rapporti con Salvini almeno dalla campagna delle europee del 2014, quando non si candidò ma sostenne l’altro economista no-euro leghista, Claudio Borghi. Io stesso fatico a immaginarmi Bagnai seduto al Senato tra un Calderoli e un Bossi, ma perché? Perché ho visto le foto che qualcuno ha subito rimesso in giro, dove partecipa a un dibattito dietro a una falce e un martello? Lui in realtà è sempre andato ovunque lo facessero parlare, sinistra, destra. È semplicemente successo che i no-euro di destra fossero più numerosi, e meglio organizzati. E allora perché? Perché i suoi primissimi interventi in rete (poi rimossi) li ha scritti su Sbilanciamoci, un sito che era espressione di quella sinistra plurale e alternativa che veniva dai forum sociali dei primi anni Zero? Ma è successo molto tempo fa, e non si può nemmeno accusarlo di incoerenza: Bagnai era un antieuro già allora, e antieuro è rimasto. Oppure perché è un orgoglioso keynesiano, e di tutti gli economisti liberali, Keynes, con la sua visione anti-moralista della spesa pubblica, è quello che è sempre piaciuto più a sinistra? Ma, anche in questo caso, è stata semmai la sinistra al governo a rinnegare Keynes; a questo punto della storia se Bagnai calcola che nel centrodestra ci possa essere più spazio per una politica anti-austerità, chi sono io per dargli torto?

Più in generale, chi sono io?
Domanda meno inutile del solito. Sono un elettore di centrosinistra per educazione e inclinazione. Faccio parte di un spicchio sociale che una volta si chiamava “ceto medio riflessivo”, ma la definizione è andata in crisi da quando molti hanno seguito Beppe Grillo (non Bagnai: non ha mai appoggiato Grillo e i suoi). Sin da quando ho cominciato a votare, non mi è stato difficile capire da che parte stare: bastava individuare Berlusconi e votare per chi aveva più chance di batterlo. Quando Berlusconi è andato in crisi, ho dovuto ridefinire i parametri. È successo a molti come me, con risultati imprevisti. A un certo punto, credo verso il 2012, ne ho individuato uno che mi sembrava affidabile: il principio di realtà. Tra i politici (anche nuovissimi) che raccontavano le frottole, e i politici che non mi nascondevano la realtà (anche amara) avrei scelto i secondi. Questo tagliava fuori ovviamente oltre alle promesse berlusconiane, le nazioni padane e gli universi alternativi dei giovani cinquestelle, a base di scie chimiche, sirene e chip sotto-pelle. Da una parte le panzane, le bufale  (non le chiamavamo ancora fake news ma il concetto era già ben chiaro), dall’altra la scienza, la dura legge dello spread. Tutto molto chiaro: non fosse stato per Alberto Bagnai. L’unico elemento che non si lasciava inquadrare così facilmente.

Credo di avere scoperto l’esistenza del suo blog nel peggiore dei modi, attraverso l’intervista concessa a un altro grande avventuriero mediatico, Claudio Messora in arte Byoblu; il vlogger che non era ancora diventato un portavoce ufficiale del Movimento Cinque Stelle a Bruxelles (poi silurato). Per me in quel momento Messora era soprattutto il portavoce ufficioso di Giampaolo Giuliani, il tecnico aquilano che sosteneva di aver messo a punto un sistema per prevedere di terremoti. Il classico esempio di scienziato-come-se-l’immaginano-i-grillini: un artigiano geniale, osteggiato dall’università manovrata dai grandi capitali, che da solo in un piccolo laboratorio porta avanti la fiaccola della verità. Poi arriva Messora con videocamere e microfoni, produce un’ora di filmato, lo piazza in rete, e gli aquilani cominciano a scrivere al blog per chiedergli se quella sera è il caso di rincasare o di dormire in macchina.
Il fatto che dopo aver lanciato Giuliani come fenomeno su Youtube, Messora si fosse dedicato a Bagnai non poteva che ispirarmi una certa diffidenza nei confronti di quest’ultimo (e c’era la coincidenza geografica: anche Bagnai lavorava in Abruzzo, questa terra un po’ dimenticata dai riflettori che è la cornice ideale dove immaginare qualche genio esiliato dal malanimo e dall’invidia dei colleghi). All’italiano medio, proprietario di abitazione, terrorizzato dai terremoti, Giuliani diceva che le scosse erano prevedibili (bastava misurare il radon); all’imprenditore abbattuto dalla crisi e dalla concorrenza dei mercati emergenti Bagnai promette che il declino dell’Italia è reversibile (basta tornare alla lira). Entrambi insomma fornivano al lettore di Byoblu e Beppegrillo soluzioni apparentemente facili e praticabili a problemi molto più complessi: non teorie del complotto, ma elisir di lunga vita.

In realtà Bagnai – basta leggerlo – è un caso completamente diverso da quello di Giuliani. Per prima cosa non è un reietto della scienza: ha una cattedra a Pescara, collabora con istituti di ricerca in tutta l’Europa, pubblica paper, ostenta nei suoi scritti anche occasionali una robusta cultura umanistica, che mette a servizio di un’inesausta vena pedagogica. Bagnai non solo vuole dimostrarti di conoscere la sua scienza, l’economia, ma in un qualche modo è anche convinto che riuscirà a spiegartela, accumulando dati, teorie, tabelle, estrapolazioni, rimandi ad altri interventi, tutto un enorme corpus che evidentemente funziona: il suo blog, ancora con un semplicissimo layout di Blogspot, in quattro anni ha avuto più di tre milioni di accessi; anche i suoi libri sembrano vendere bene e le presentazioni sono sempre molto affollate.
Quando ho cominciato a leggerlo, Bagnai mi è risultato nello stesso tempo familiare e incomprensibile. Incomprensibile in quanto economista, e per quanto si sforzasse lui e ci provassi io, la materia era evidentemente troppo dura per me; familiare, perché per quanto economista, Bagnai è anche un blogger nato. Non importa quanto tardi si sia accostato allo strumento: la sua prolissità, la confusione creativa tra pubblico e privato, l’energia inesausta con cui si abbatte contro gli avversari; l’abilità con cui ha trasformato l’area dei commenti in una piccola comunità, una specie di corridoio di facoltà; sin dall’inizio il blog sembrava nato per Bagnai, e Bagnai per lui.



Certamente è anche per questo che non mi sono mai convertito al bagnaismo – per questo, e perché sono nato e cresciuto nel cortile di un capannone di una piccola impresa padana a conduzione famigliare, e l’idea che per tornare ai fatturati degli anni Ottanta basti recuperare la lira mi sembra davvero la proposta di un professore arrivato in paese col filtro dell’eterna giovinezza. Però, alla fine, io di economia non ne capisco niente. Non ho mai avuto gli strumenti per capire se la sua teoria fosse migliore di quella di chi difende l’unione monetaria e l’austerità; i blogger però li so riconoscere, e nel 2012 Bagnai mi sembrava troppo blogger per essere anche uno studioso autorevole. Non capivo le sue tabelle, ma la sua foga mi sembrava eccessiva. I suoi idoli critici scrivevano compassati nei quotidiani nazionali, lui strepitava da un blog: istintivamente diffidavo di chi sbraitava, ma non avevo proprio capito niente di comunicazione.
Oggi è normalissimo vedere un esperto, un professionista del suo settore, insultare sui social gli interlocutori non all’altezza: è stato anche coniato un verbo all’uopo, “blastare”, e soprattutto si è formato un pubblico, una comunità di persone che applaude il blastatore quando questo rischiara le tenebre dell’ignoranza con qualche insulto laser. Mentre sto scrivendo queste righe, su twitter incrocio Burioni che blasta qualche antivaccinista. Ecco: Bagnai forse è stato il primo professore-blastatore dell’internet italiana. Quella foga sanguigna che io trovavo sospetta, credo che sia stata il segreto del suo successo; molta gente cercava su internet non soltanto un elisir di lunga vita, ma un maestro severo, di quelli che la scuola non ti offre più. Non so che insegnante sia Bagnai dal vivo, ma sul blog è un mago: ti circonda con le parole e con i dati, ti soggioga, riesce a bacchettarti sulle dita con la sola imposizione della prosa. Alla fine non è così strano che Salvini abbia liberato un posto in Senato per lui. E allora, di nuovo: perché faccio fatica a crederci?

Perché anche se non mi sono mai convinto che il ritorno alla lira non possa che essere un disastro, in qualche anno di saltuaria frequentazione del blog un’idea me la sono fatta: Bagnai è davvero un intellettuale, nel senso migliore del termine: un intelletto vivo, e inesausto. Nel momento in cui chiede ai suoi sostenitori anti-euro di votare per la Lega, può davvero ignorare che Salvini il repertorio anti-euro lo tira fuori sempre più di rado, e in caso di vittoria del centrodestra alle elezioni probabilmente lo accantonerà per assumersi una responsabilità di governo? Bagnai è un economista fieramente keynesiano: non ha proprio niente da dire sulla flat-tax, la nuova ricetta miracolosa che nei comizi di Salvini ha ormai soppiantato il ritorno alla Lira? Bagnai, non lo manda a dire, è contrario all’“immigrazionismo”, “fase suprema del colonialismo”, ma non dimentica mai di ricordare ai suoi lettori che i profughi hanno diritto all’asilo: non immagina allora cosa succederà nel Mediterraneo, quando un uomo del suo partito si ritroverà al Viminale, come si trovò Maroni tra 2008 e 2010, quando i barconi venivano respinti al largo?
Bagnai, per chiuderla, ha tutti gli elementi per capire in che trappola sta cadendo: che se c'è una vaghissima possibilità che il centrodestra, una volta al governo, adotti la sua politica economica senza compromessi, ce n’è una molto più concreta che egli diventi lo specchietto da esibire a un elettorato di allodole no-euro; che le sue parole, fin qui fiorite così libere e sincere sul blog, vengano usate per giustificare le prossime stragi nel mare, o la prossima iniziativa di un pistolero disperato. Un rischio che non può non avere calcolato: è un economista, lui.
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Come ci si ammazza in Padania

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All'onorevole Buonanno, leghista, è capitata la sorte che non augurerei al peggior nemico, che in effetti potrebbe essere lui. Sparato ad alta velocità, cuore fragile di una pallottola di lamiera, Buonanno è morto tamponando un compagno di strada sulla corsia di sicurezza, come potrebbe capitare al miglior guidatore in un momento di stanchezza o distrazione. Perché è così che vanno le cose: a diciott'anni superi un test, ritiri una patente e da quel momento puoi girare armato, anzi sei tu stesso l'arma. Non con quelle cose ridicole che tengono gli americani nel cassetto, e i politici sventolano in tv per speculare sull'ansia di chi è stato svaligiato. Parliamo di ordigni enormi, quintali di ferro o alluminio che possono passare da zero a 150 km/h con la lieve pressione di un piede. Possono ucciderti in ancora meno tempo e non è lo scenario peggiore. Possono fare di te un assassino. Succede tutti i giorni.

L'onorevole Buonanno, leghista, si mostrava preoccupato per la criminalità e non aveva nemmeno tutti i torti - probabilmente sta aumentando, com'è logico in tempo di recessione. I furti in casa soprattutto, e non c'è bisogno di sottolineare come questa categoria di reati influisca più d'altre sulla percezione della sicurezza del ceto medio proprietario. D'altro canto, gli omicidi consumati a scopo di furto o rapina, nel 2014, sono stati 27. Nello stesso anno le vittime di incidenti stradali sono state 3381. Nel Duemila erano ancora più del doppio. Una cosa giusta e di sinistra che ha fatto Berlusconi: mettere il tutor in autostrada (o se l'ha fatta Prodi, almeno Berlusconi non l'ha tolto). Una cosa scema e di destra che ha fatto Matteo Renzi: il reato di omicidio stradale.

Non si muore più in strada come una volta, ma si muore ancora tanto e lo sappiamo. È l'unica vera guerra della mia generazione: abbiamo tutti uno o due amici al camposanto a cui non portiamo più i fiori. Buonanno non era un mio amico, ma era come minimo un compagno di autostrada, due o tre volte statisticamente potremmo esserci sorpassati. Sono vicino al dolore dei suoi cari: non mi costa fatica, è lo stesso dolore che mi accompagna tutti i giorni. Là fuori ci si ammazza, ed è successo anche a gente a cui volevo bene, un po' più spesso di quanto pensavo di poter tollerare. È un problema molto più grosso di tanti altri problemi che ci fanno discutere, che ci spingono a prendercela contro una minoranza o contro un ceto politico e votare un onorevole piuttosto di un altro.
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I due populismi complementari

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È un po' tardi, ma volevo condividere l'intuizione di mezzanotte: se il populismo di destra si caratterizza per la retorica del Nemico, ne consegue che in Italia di populismi attualmente ne abbiamo due, complementari. Questo in parte spiega la momentanea eclissi del M5S, che dopo gli attentati di Parigi non ha ritenuto necessario definire con maggior chiarezza la sua posizione in politica estera; in sostanza non ne ha una. Il fatto è che il populismo di Grillo e del suo comitato centrale è uno dei più curiosi al mondo, concentrato com'è sul Nemico Interno: il Politico. Viceversa il populismo di Salvini e della Meloni, che in mancanza di niente stanno opzionando quel che resta del centrodestra berlusconiano, si concentra sul Nemico Esterno: l'immigrato quasi sempre islamico e potenzialmente terrorista (Berlusconi non ci sta mettendo la faccia, ma il suo Giornale e i suoi tg sono già piuttosto allineati sull'argomento).

Messi assieme, Grillo e Salvini produrrebbero il populista perfetto; purtroppo, o per fortuna, sono inconciliabili. Al punto che nel momento più propizio per dare addosso agli immigrati, gli uomini di Grillo si sottraggono e mostrano il lato più umano (dopotutto anche loro hanno votato per depenalizzare la clandestinità); specularmente, quando passerà l'eccitazione collettiva per il terrorismo e scopriremo qualche altra Mafia Capitale, i grillini tireranno fuori gli artigli, ma Salvini si mostrerà molto più equilibrato, se non proprio garantista alla Berlusconi.

A un certo punto poi si voterà, e uno dei due populismi probabilmente arriverà al ballottaggio (sempre ammesso che ci si arrivi). Forse è inutile analizzare i trend elettorali, forse tutto dipenderà dall'ultimo fatto di cronaca importante: se sarà un attentato, Salvini; se sarà uno scandalo, Grillo. I due personaggi sono incompatibili, ma i loro elettori non lo sono affatto: anzi appartengono a un unico bacino che è in comunicazione anche coi serbatoi inesplorati dell'astensione. Poi c'è lo scenario hard - un ballottaggio tra Salvini e un grillino - e non mi sento di escluderlo a priori. Ah, nel caso voterò M5S: "Onestà" mi sembra meno pericoloso di "Stop Invasione". E poi in generale mi danno meno affidamento: al primo casino si rivota.
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Di Calderoli non si butta via niente

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Quando quattro anni fa l'allora presidente del consiglio Berlusconi si trovò nei guai per una questione di minorenni; quando fu accusato di aver fatto pressioni sui funzionari della questura di Milano perché rilasciassero Karima El Mahroug detta Ruby, la Camera dei Deputati si trovò in una situazione molto imbarazzante. Berlusconi non negava di aver telefonato in questura, ma sosteneva di averlo fatto nell'esercizio delle sue funzioni di premier, in quanto convinto, arcisicuro, che Ruby fosse la nipote del dittatore-presidente egiziano Mubarak.  Su questo singolo punto la Camera fu chiamata a votare il 5 aprile del 2011; su questo singolo punto si pronunciò. La maggioranza dei deputati votò a favore. 318 deputati - per la maggior parte iscritti ai gruppi del Popolo della Libertà e della Lega Nord - affermarono con quel voto che sì, Berlusconi aveva davvero creduto che Ruby fosse la nipote di Mubarak. I loro nomi furono pubblicati, per esempio, dall'Unità, senza altro commento - tanto inappellabile era l'infamia. Molti di quei trecento siedono ancora in parlamento, eppure tante cose sono cambiate.

Due giorni fa il Senato della Repubblica si è trovato in una situazione imbarazzante. Il senatore Roberto Calderoli, che aveva depositato un mezzo milione di emendamenti alla riforma costituzionale, ha insistito perché non si posticipasse un voto su di lui, che nel 2012 in un comizio a Treviglio aveva paragonato l'allora ministra Kyenge a un orango. Un pubblico ministero aveva ravvisato in un simile paragone un'aggravante razziale. Il senato doveva scegliere se autorizzare o no un processo. 196 senatori - 81 dello stesso partito della Kyenge - hanno votato no: per loro non c'è nessuna aggravante razziale nel paragone tra un ministro di origine africana e un orango. Pare che siano cose che capitano nei comizi, un senatore del PD ha dichiarato proprio così:
"le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell’ambito di un particolare contesto di critica politica" e "spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose".
Devo ammettere di avere io stesso più volte paragonato Calderoli a un suino, a causa di certi suoi deprecabili costumi. In coscienza, nemmeno io credo di aver dato luogo a fattispecie criminose. Ho ricordi più o meno vaghi di cavalli di razza, topi e rospi, e poi a un certo punto il bestiario ci sembrò inadeguato e arrivammo alle mortadelle. Però, insomma, non ravvedere il razzismo in un paragone tra una donna di origine africana e un orango è un po' grossa. Potrei quasi capirla se dietro ci fosse il nobile intento di salvaguardare la libertà di espressione degli eletti dal popolo: peccato che tra quei 196 senatori ce ne siano parecchi del tutto favorevoli a processare Calderoli per quel che ha detto. Ma solo per diffamazione, senza aggravanti razziste. Insomma, paragonando la Kyenge a un orango, Calderoli l'ha offesa. Però la ha offesa senza razzismo. Senza sobillare il razzismo della platea a cui si rivolgeva. I 196 senatori la pensano così.

Allora mi chiedo: che strada abbiamo fatto dal 2011 a oggi? È peggio una Camera che prende per buona qualsiasi cazzata si inventa l'avvocato di Berlusconi, o un Senato che per mandare avanti un'orrenda riforma costituzionale si tappa le orecchie, gli occhi, il naso per non sentire la puzza di un porco razzista - animale peraltro dal fiuto notevole, tant'è che dopo il voto che l'ha graziato ha prontamente ritirato gran parte degli emendamenti?

Ecco chi ha salvato Roberto Calderoli dall'accusa di razzismo.
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"Datti una risposta da solo"

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Presidente Bonaccini, so quanto i giornalisti sappiano essere fastidiosi, a volte. Fanno domande insensate, non cercano risposte, ma reazioni scomposte. E se taci, che davvero sarebbe l’unica cosa saggia, t’inseguono, poi montano tre minuti di inseguimento e si credon cronisti d’assalto. Altro che Woodward e Bernstein, loro puntano più su, verso il Gabibbo. A scuola han letto che la stampa deve dar fastidio al potere e han frainteso; invece di dare un’occhiata agli situazione degli appalti in Regione, vanno a punzecchiarti ai comizi. Perché fare i cani da guardia della democrazia, quando puoi esserne la zanzara. Non sono tutti così, ma fin troppi.

Presidente, so che lei è un po’ meglio di come appare in un video di due minuti dove non sa più rispondere a una cronista che non sa cosa domandare. Quanto le debba suonare paradossale l’accusa di militare in un partito dittatoriale - quando per candidarsi in regione ha dovuto battagliare anche coi renziani compagni di corrente. Però doveva proprio darle un buffetto sulla guancia? E poi. Chiuda gli occhi e si riascolti. So quanto può essere fastidioso riascoltare la propria cadenza modenese, ma ci provi. Si domandi cosa le ricorda. E si dia una risposta.

Presidente, non sarà dittatoriale il suo partito, ma non lo riconosco. M’avessero impacchettato vent’anni fa, e risvegliato oggi, ascoltandola io dedurrei che i leghisti si sono presi pure l’Emilia. Mi sbaglierei? Me lo sono chiesto. E un po’ mi sono già risposto.
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Mentre Salvini rifà l'Impero, ti offro un caffè

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Certo, si potrebbe risolvere il problema come dice Salvini: cioè in pratica... sbarcare in Libia, Tunisia, Egitto, e occuparne tutta la regione costiera. L'ultima volta che ci siamo riusciti ci chiamavamo ancora Impero Romano, ma se vi sembra un'alternativa praticabile, perché no.

Oppure potremmo limitarci alla proposta più terra-terra della Santanchè, che in sostanza propone di monitorare la costa africana 24 ore su 24 con aeroplani pronti ad affondare qualsiasi barcone prima che lasci il porto. Toccherà immagino acquistare qualche f35 in più, ma se dite che conviene avrete senz'altro fatto i vostri conti.

http://www.ansa.it
Se invece non ne potete più di ascoltare proposte del genere dal collega, o dall'amico, o dal conoscente al bar o su facebook, c'è una cosa molto semplice e tranquilla che potete fare: lasciatelo parlare e offritegli un caffè. Va bene anche quello alla macchinetta.

Quello a un certo punto dovrà pur smettere di parlare di barconi e invasioni ed Eurabia per accostare al labbro la tazzina: ecco, profittate di quel breve momento per spiegargli quanto gli costava l'operazione Mare Nostrum (quella che ha salvato 160.000 migranti in un anno). Un caffè al mese. Quel caffè.

Che moltiplicato per 38 milioni di contribuenti italiani, per 12 mesi, ha evitato per un anno disgrazie come quella di ieri. Bastava un caffè.

Ma forse conviene mandare gli f35 in rotazione. O rifare l’impero Romano. Lo saprà bene Salvini, avrà fatto i suoi conti.
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Temo i leghisti (anche quelli in felpa)

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- Quelli che prendono in giro Salvini perché a Roma è arrivato con quattro gatti (compresi quelli neri reclutati in loco):
... si ricordano di tutte le volte che abbiamo irriso Berlusconi perché le sue piazze restavano semivuote - e poi le elezioni le vinceva lo stesso?

- Quelli che festeggiano per le lotte intestine in Veneto tra Salvini e Tosi:
... si ricordano di tutte le volte che Bossi cacciò a pedate qualche oppositore interno che in teoria valeva decine di migliaia di voti? Di Miglio, Pagliarini, Gnutti, e tanti altri? Di quante volte dagli anni Novanta in poi abbiamo letto di una Lega divisa per poi scoprire alle urne che la base seguiva Bossi comunque e dovunque? 

- Quelli che parlano di una mutazione profonda della Lega, che avrebbe rinnegato il suo passato regionalista e federalista e blablabla:
...che film si stanno guardando da vent'anni? La Lega di Bossi era razzista e populista come la Lega di Salvini. Il federalismo serviva per darsi un tono, ma a guardarlo da vicino era di gommapiuma come le corna sugli elmi di Pontida. 12 anni fa Bossi già diceva che bisognava salutare i barconi a cannonate. Non è che la xenofobia leghista se la sia inventata Salvini. Non è che prima i Rom fossero i beniamini delle feste della Padania.

- Quelli che credono che Salvini - coi limiti strutturali del suo movimento - sia l'avversario più comodo per il PD:
...no, niente, spero tanto che abbiate ragione. Ma io temo i leghisti anche quando metton via gli elmi e indossano le felpe. 
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O con Matteo, o con Matteo

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E così, insomma, io che considero il referendum abrogativo di Landini un'opzione suicida, non ho niente di meglio da suggerire che attendere un altro referendum (quello confermativo sulle riforme costituzionali) e in quel momento ammucchiarmi con Berlusconi, Grillo e chiunque altro nell'occasione darà una mano ad affondare la nave di Renzi. A medio termine, cosa avrò ottenuto?

Andrà del tutto sprecato il tempo trascorso a discutere e votare le riforme (d'altro canto non sono davvero un granché, queste riforme: per evitare pasticci ci sarebbe bisogno di correggerle subito con ulteriori riforme, tanto vale ripartire da capo). Avrò umiliato Renzi, senza che sia ancora comparsa all'orizzonte un'alternativa credibile. Probabilmente la legislatura finirà subito dopo, e Renzi sarà ancora il candidato del PD. Tutto quello che spero di ottenere è lo spostamento del baricentro del PD più a sinistra. Non è un po' poco? Ma soprattutto:

Non è la stessa cosa che propongo da dieci, vent'anni?

Sempre con questo baricentro da spostare, possibile che non mi venga mai in mente altro? La cosa angustia anche me, anche se qualcuno la chiamerebbe coerenza e magari ne andrebbe fiero: probabilmente sono un riformista, uno che ha come obiettivo la realizzazione di un grande partito socialdemocratico all'europea che punti all'egemonia nel Paese, e dunque da quando c'è il PD (ma anche prima) non faccio altro che spingere il PD come una formichina spinge un pachiderma. Nel frattempo i grandi partiti socialdemocratici europei non se la stanno passando un granché bene: forse siamo alla fine di una certa dialettica novecentesca tra socialdemocrazia e conservatorismo liberale, ma io continuo a spingere imperterrito. Le altre opzioni le trovo ancora meno ragionevoli.

O meglio: le altre opzioni secondo me si riducono a una sola. Siamo a un bivio, come sempre. Non si tratta di scegliere tra sinistra e destra, né tra Renzi e anti-Renzi. Credo che alla prossima consultazione la scelta sarà tra Euro e non Euro: e che tutto il resto, Renzi incluso, sarà subordinato a questo: vogliamo l'Euro? Dovremo tenerci Renzi, ancora per un po'. Non vogliamo più l'Euro? È una prospettiva meno folle di quanto non fosse uno o due anni fa.

Due anni fa la vittoria di Hollande ci aveva fatto sperare nell'inizio di una nuova fase. La Francia socialista avrebbe potuto coalizzarsi con gli Stati indebitati del sud e rimettere in discussione la politica tedesca e nordica del rigore. Avrebbe potuto andare così, ma non è successo.

Persino Renzi prometteva che ne avrebbe discusso con la Merkel. È andata com'è andata. A chi avesse ancora dei dubbi, l'esito della trattativa Tsipras-UE dovrebbe esaurirli. Il rigore non si discute. A questo punto l'uscita dall'Euro diventa un'opzione. Dolorosa quanto si vuole, autolesionistica indubbiamente: ma è l'autolesionismo della disperazione. L'ultimo spazio a disposizione del condannato per negare agli altri il diritto di disporre di lui. Oggi, alla luce di quel che è successo negli ultimi anni, è giusto ricordare che l'uscita dall'euro sarebbe un'opzione catastrofica, ma non necessariamente la più catastrofica. È lecito discuterne, non solo tra i fulminati dei blog di pseudoeconomia: vogliamo andarcene o restare?

Io ovviamente voglio restare, però gli antieuristi li capisco molto più oggi che in passato. Soprattutto non credo che nei tempi brevi la situazione politica ci concederà il lusso di una terza posizione: o saremo con l'euro (e con Renzi) o saremo contro. E con Salvini.

Mi dispiace metterla giù così brutale, ma in coscienza non credo che sia molto più complicata. Se si vuole perseguire una politica economica davvero alternativa a quella imposta da Berlino e Francoforte, occorre uscire. Purtroppo non esistono uscite a sinistra e uscite a destra: ce n'è una sola. Ritenete di meritare un partito più a sinistra del PD, un partito non compromesso col renzismo? Pensate che l'unità monetaria, così com'è stata realizzata, sia stata una cessione imperdonabile di sovranità? Salvini e Grillo saranno i vostri alleati naturali. Ma anche la Meloni, e molti berlusconiani tra i quali magari Berlusconi stesso.

Un'alleanza trasversale anti-euro al momento è l'unica che può mettere Renzi in difficoltà. È uno dei motivi per cui il ballottaggio è pericoloso: mentre è al momento impensabile una coalizione Grillo-Berlusconi-Salvini (anche se la pensano allo stesso modo quasi su tutto), al secondo turno sarebbero gli elettori dei rispettivi partiti a superare le diffidenze dei vertici e concentrarsi sull'unico candidato anti-euro rimasto in lizza. Grillo non voterebbe mai per Salvini, ma l'elettore di Grillo non avrà le stesse pregiudiziali. E anche l'elettore di sinistra anti-euro non dovrebbe averne. A nessun eventuale partito di sinistra - ammesso che si riesca a riorganizzarne uno - sarà concessa l'ambiguità con cui Syriza vinse le elezioni: dentro l'euro ma contro l'austerità. Dentro l'euro ma forse fuori. Tsipras bluffava anche per noi: Bruxelles ha visto le carte, fine dei giochi. Ora siete liberi di pensare che l'Italia possa risolvere i suoi problemi rimettendosi a coniare moneta. Ma non siete più liberi di cercarvi un candidato: quel posto se l'è preso il ragazzone arrogante con le felpe.

Mi dispiace, forse non doveva finire così, ma qui le nostre strade si separano. Ci vediamo dall'altra parte.
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Del ridursi a sperare in Silvio; nella sua ragionevolezza

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Con quella sua faccia sempre più di cera, tesa dietro gli occhialini da pokerista non vedente; con le sue condanne in via definitiva e la fidanzatina col guinzaglio; col suo partito sempre più leggero, tanto simile a una squadra che dopo aver vinto tutto si è stancato di pagare; col suo impero di antenne sempre fragile, sempre a un passo dall'invasione dei barbari, eppure dopo quarant'anni è ancora lì; ma come si deve sentire Silvio Berlusconi al pensiero che se volesse, se solo volesse, potrebbe davvero riprendersi l'Italia in un paio di mosse - neanche particolarmente astute. E come dobbiamo sentirci noi, a dover dipendere dalla sua ragionevolezza, dal senso di responsabilità di un tizio che racconta scemenze allarmiste sull'Ebola in diretta.

E vorrei tanto sbagliarmi, ma davvero, è così fragile il filo che tiene Matteo Renzi appeso alla sua macchina teatrale di leader della nazione; così debole il suo consenso, fatto ormai più di gente che si astiene che di gente disposta a votare per lui. Basterebbe un nonnulla, un piccolo colpetto, un ago di bilancia, per disarcionarlo e riportare una destra di popolo al potere; e Berlusconi è molto più di un ago. Non è più Van Basten, siamo tutti d'accordo; forse non avrebbe neanche più i soldi per comprarselo; ma oggi il campionato in Italia si vince con molto meno. Se Renzi non è il fenomeno carismatico e politico che a un certo punto abbiamo tutti sperato che fosse (anche i suoi oppositori, per avere almeno qualcosa di interessante a cui opporsi), Salvini è, con tutta la più buona volontà, un calzino rattoppato che può credersi qualcuno soltanto nel Paese delle mezze calze. I media credono in lui come si crede al campioncino del momento, quello che ha infilato tre gol in tre partite e in primavera starà già annaspando. Bossi ha deluso, Grillo ha deluso, Renzi è quel che è, buttiamoci su Salvini. È una bolla come un'altra, potrebbe scoppiare da un momento all'altro; ma se invece Berlusconi volesse investirci davvero? Non avrà i soldi del '94, ma - no, aspetta, nel '94 aveva forse più debiti che adesso. L'asta poi rischia di andar deserta, l'Italia oggi vien via per molto meno.

Attenzione, non basta misurare la popolarità attuale di Salvini e moltiplicarla per i ripetitori di Silvio Berlusconi. Bisogna anche calcolare cosa succederebbe dal momento in cui Renzi smettesse di essere, per la stampa e per le tv mediaset, quel simpatico bischero con tanta genuina voglia di fare che può andare da Barbara D'Urso a vendersi gratis. Dopo che Corriere, Repubblica e a momenti anche la Stampa hanno voltato le spalle, nel momento in cui metà dell'etere nazionale cominciasse a pompare un Salvini cacciazingari ma dal cuore d'oro, anti-euro ma con giudizio, e Renzi si ritrovasse davvero solo col suo twitter. Tutto questo magari all'indomani del varo di una legge elettorale concepita per regalare legislativo, esecutivo e quirinale a chiunque arrivi primo, e il secondo a casa. Quanto spero di sbagliarmi quando penso che da uno scenario del genere, in sostanza un sogno bagnato di Borghezio, mi separa soltanto la coscienza di un uomo.

Un uomo con quella faccia di cera e gli occhialini da pokerista cieco, e la ragazza trofeo col cagnetto; un tizio che non è detto che abbia una coscienza - non quella che io chiamo coscienza - ma posso soltanto sperare abbia ancora quel tanto di raziocinio da capire che appaltare la baracca a Casa Pound e avviare procedure per l'uscita dell'euro (anche solo per finta) non conviene, per primo, neanche a lui e alle sue aziende. Non mi aspetto che abbia a cuore il destino dell'Italia e dell'Europa; ma almeno delle sue aziende.

Poi penso a come ha lasciato ridurre il Milan, e davvero, mi preoccupo.

Perché dietro a quegli occhialini e quella faccia di cera potrebbe pure esserci qualcuno che a questo punto ci odia - non gli mancherebbero i motivi; qualcuno ben disposto a lasciarci distruggere, anche solo per dimostrare ai suoi figli che lui, solo lui era il migliore, e senza di lui nessuno sarà mai più buono a combinare qualcosa.

(PS: anche per questo motivo, io ritenevo e ritengo che Cologno dovrebbe essere distrutta).
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Salvini, il razzista utile

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Ho questo puerile motivo d'orgoglio, per cui spero mi scuserete: qualche anno fa, nel momento più buio della storia della Lega Nord, quando molti la davano spacciata, io scrissi che secondo me avrebbe retto la botta degli scandali del clan Bossi. E mi ritrovai sul sito dell'Unità a sciogliere un elogio a Matteo Salvini, che non era ancora segretario né in pectore né in felpa, ma già stava dimostrando quella dose di bronzo facciale necessario per traghettare un movimento di secessionisti immaginari nel nuovo mondo postberlusconi. Era la primavera del 2012, un'altra era geologica: né Renzi né Grillo erano ancora scesi in campo. Salvini era già più o meno lì: il fatto che oggi riesca a proporsi come l'uomo nuovo ci dice molto sia sulle sue capacità, sia sulla cronica smemoratezza di chi è già disponibile a cascarci un'altra volta.

Magari i numeri, quando usciranno davvero, ci sorprenderanno come al solito: ma per ora Salvini è il miglior avversario che Renzi si possa augurare. Le sue sparate anti-euro sono ideali per parassitare l'elettorato grillino e cannibalizzare quello berlusconiano, indebolendo i due partiti concorrenti senza riuscire a risucchiarli completamente: le sbandate razziste lo rendono allo stesso tempo popolare e impresentabile. Salvini non può diventare l'uomo della provvidenza del centrodestra; il movimento che lo sostiene ha limiti strutturali enormi (da Bologna in giù). Allo stesso tempo finché c'è lui in scena è difficile che l'attenzione dell'elettorato di destra-centrodestra si coaguli intorno a qualche altro candidato più credibile, che finora non è saltato fuori. Molti voteranno Salvini in mancanza di meglio; ma molti altri, piuttosto votare un tizio del genere, sosterranno Renzi. Che ha tanti difetti, ed enormi; ma insomma, vuoi mettere?

Prendi me. Tra due settimane in Emilia-Romagna si vota e, salvo ripensamenti, mi concederò il lusso di non votare PD. Non si tratta, almeno nelle intenzioni, di un voto di protesta contro il governo Renzi: peraltro è difficile immaginare che il partito riesca a perdere le elezioni qui da noi: non dico che non ci si stia provando in tutti i modi, ma sarebbe un'impresa storica, la prima sconfitta dal dopoguerra. Questa continuità estenuante, che ha ragioni storiche ma che alla lunga sta causando una degenerazione della classe dirigente, mi ha spinto più volte a votare altrove: quasi sempre un po' più a sinistra. Farò così anche stavolta e probabilmente il mio voto andrà disperso. Almeno non voterò Renzi, visto che non mi sta piacendo. Ma tra due anni?

Tra due anni - uno più uno meno - si andrà a votare per la Camera con un sistema che non è ancora definito, ma che sicuramente polarizzerà le opzioni. Da una parte dunque Renzi, e dell'altra magari un Salvini o comunque un salvinoide anti-euro, anti-immigrazione, anti-zingari, ecc. A quel punto il voto a Renzi rischia di diventare un voto contro il razzismo, il fascismo, i pogrom, eccetera. Salvini potrebbe essere quello che Jean-Marie Le Pen fu nel 2002: il candidato impresentabile che al ballottaggio costrinse i socialisti francesi a ingoiare antiemetici e votare Chirac. Un razzista sciovinista ributtante ma - dal punto di vista di Renzi, e di chi lo sostiene - decisamente utile.
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Di Calderoli (non si butta via niente)

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Speravo non arrivasse mai quel giorno, e invece eccomi qui a cantare le lodi dello statista più abile e improbabile d'Italia, Roberto Calderoli. Cosa mi sta succedendo? E siamo sicuri che sia un problema solo mio?

Nei mesi scorsi mi è capitato più volte di criticare, dal mio trascurabile punto di vista, le bozze di riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione portate avanti dal governo e dalla ministra Boschi. Sia nella loro versione marzolina - quando il Senato per un po' fu ribattezzato Assemblea delle Autonomie, senza che si capisse bene su cosa avrebbe legiferato e perché - sia quella bozza successiva in cui, siccome la sproporzione tra regioni più o meno popolate non sembrava sufficiente, qualche buontempone aveva deciso di nominare senatori i sindaci dei capoluoghi di regione. Un nonsense completo che sembrava aggiunto apposta per essere cassato in un secondo momento, e infatti è andata così. Il testo che oggi fa ancora discutere, principalmente per la questione dell'immunità, è comunque molto migliorato. Non è il mio testo ideale, ma mi riconcilia col partito che ho votato alle europee. Non fosse che molti di questi miglioramenti si devono al fatto che ci abbia messo le mani Roberto Calderoli.

Proprio lui, il leghista col maialino al guinzaglio. L'unico ministro al mondo a essersi dovuto dimettere per aver causato una sommossa popolare mostrando una maglietta in tv. Pare che sappia scrivere le leggi meglio dei ministri PD. Questa per la verità non è del tutto una sorpresa... (continua sull'Unità, H1t#236).

Chi segue più da vicino la cronaca parlamentare ci raccontava già da anni di un Calderoli paziente diplomatico, assai diverso da quello che poi alle feste leghiste chiamava la Kyenge “orango tango“. Da cui l’orribile dubbio: è migliorato Roberto Calderoli, o siamo peggiorati tutti, al punto che persino il vecchio suino ormai ci fa la figura di statista? Nel nuovo testo non esiste più quel bizzarro club dei ventuno amici del Quirinale, nominati dal presidente della Repubblica, che avrebbero potuto fare da ago della bilancia in situazioni molto delicate (per esempio la rielezione del Presidente stesso). Ora sono soltanto cinque, una quota molto più accettabile. Ma ce lo doveva spiegare Roberto Calderoli che ventuno erano un po’ troppi?
Nel nuovo Senato non entreranno più i sindaci dei capoluoghi di regione, grandi o piccoli che siano. Si reintroduce finalmente il concetto di proporzionalità: le ragioni più popolate avranno più rappresentanti di quelle meno popolate. Sembra una banalità, ma c’è voluto un emendamento di Calderoli. E della Finocchiaro, certo. Ma fa più effetto pensare che a sventare ogni sospetto di incostituzionalità sia intervenuto proprio Roberto Calderoli.
Persino il suo punto di vista sull’immunità è tutto sommato condivisibile: se i deputati, in quanto eletti dal popolo, godono di un trattamento speciale, non si capisce perché non dovrebbero goderne anche i senatori. Avrebbe davvero più senso eliminare l’immunità per gli uni e per gli altri. Nel frattempo la reazione populista è già scattata, ma era inevitabile: i sindaci-senatori restano una pessima idea. Renzi ci tiene tanto, un po’ perché non ha mai smesso di sentirsi sindaco, e un po’ perché vuole risparmiare sugli stipendi. Il senato che ne risulterà però sarà formato da politici eletti da altri politici: l’obiettivo ideale di tutti i savonarola anti-casta.
Queste e altre obiezioni, fin qui, non avevano smosso il governo. Renzi aveva un progetto preciso – di questa riforma si parlava già ai tempi della prima Leopolda – e, soprattutto, ci aveva “messo la faccia”. La proposta alternativa di Chiti è stata liquidata quasi come un atto di sabotaggio. Non restava che sperare in Calderoli – e Calderoli non ci ha deluso. Ora la legge proseguirà il suo percorso. Se un Berlusconi incattivito dai suoi incidenti giudiziari facesse mancare la maggioranza la legge potrebbe passare comunque con un referendum confermativo. E io mi troverei nella situazione di votare una riforma del Senato e del Titolo V non perfetta ma accettabile – salvo che non lo era, finché non ci ha messo le mani Roberto Lanciafiamme Calderoli.
Sono davvero a questo punto? Ed è un problema solo mio? http://leonardo.blogspot.com
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#HaVintoLui

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In base a un sondaggio che non si può pubblicare, anche perché nessuno lo ha fatto, io credo di potervi comunque annunciare che Beppe Grillo ha vinto - no, il M5S no, non necessariamente. Ma Grillo sì, anche se non si è candidato. Ha vinto lo stesso, nell'unico modo in cui poteva vincere, che è anche il peggiore. Domenica sera chiuderanno i seggi e spoglieranno le schede, tireranno le somme e ci diranno che Renzi è andato bene, anzi benissimo, o che Berlusconi tutto sommato tiene, e la Lega, eccetera eccetera, ma l'unica vittoria se l'è già presa Beppe Grillo.

200 poliziotti in più! che inseguiranno i ladri a piedi.
Se l'è presa nel momento in cui Silvio Berlusconi ha cominciato ad annunciare nei suoi comizi tv che vuole abolire Equitalia: le stesse esatte parole del programmino che Grillo aveva steso nella fase finale della campagna 2013. "Abolire", "equitalia". Se l'è presa nel momento in cui Renzi ci ha informato che a mò di copertura avrebbe abolito le province, o messo le auto blu su ebay, e poi l'ha fatto davvero. O quando ha cominciato a chiamare i suoi critici #gufi e #rosiconi. Se l'è presa quando Matteo Salvini, prima di cedere la sua piccola attività politica a un curatore fallimentare, si è messo a googlare "euro" "COMPLOTTO" "banche" "svegliaaaa!" e ha trasformato la Lega nel partito antieuro. Se l'è presa in quel momento qualsiasi a cavallo tra '13 e '14 in cui tutti i suoi avversari hanno cominciato ad andare a lezione da lui.

Più fiorini per tutti.
Chiunque avrà vinto lunedì, festeggerà con le parole di Beppe. Magari con gli hashtag di Beppe. Vincerà per aver copiato qualche promessa di Beppe, nel tentativo di strappare a Beppe qualche elettore. In base a un sondaggio che non ha nemmeno più importanza fare, Beppe Grillo ha già vinto.

Berlusconi giustizialista, rifletteteci.
A 77 anni quest'uomo riesce ancora a stupire

E non è tutto sommato la cosa peggiore che poteva capitarci: coraggio, se vince Grillo almeno l'Italicum non si farà. Giustamente: una legge così brutta nemmeno Grillo poteva scriverla. Non è uno scherzo: la proposta di legge elettorale del M5S è comunque bruttina, e a tratti assolutamente balorda. Ma decisamente migliore di quell'offesa al senso comune e alla democrazia buttata già da Berlusconi su cui Renzi doveva assolutamente mettere la sua bella faccia. Grillo non vince soltanto perché le parole d'ordine ormai le detta lui; vince anche perché, di fronte a contendenti costretti a scimmiottarlo, finisce per sembrare quasi il più lucido.
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L'artigianissima indipendenza veneta

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Ritorno a Capannonia. 

Tutto può darsi. Compreso che un giorno risorga davvero una Serenissima Repubblica Veneta libera e indipendente, da Belluno a Dubrovnik (ma perché non Nicosia). Che nei futuri libri di Storia, nelle wikipedia future dettate nella nobile lingua di Goldoni e Zanzotto, i secoli oscuri tra Campoformio e la prossima secessione siano definiti come un insulso interregno, un periodo in cui i veneti furono soggiogati da francesi, austriaci e - somma ingiuria - italiani, persino italiani. Può darsi che un giorno lo stendardo di San Marco sventoli di nuovo sui municipi dalla Val Trompia alla Dalmazia, e che alla loro ombra si scoprano monumenti agli indipendentisti di Brescia Patria e Veneto Stato, che oggi ridicolizziamo e che quel giorno saranno onorati come patrioti ed eroi. Tutto può darsi, compreso che le cose vadano davvero così.

Consentitemi però di dubitarne.

www.linkiesta.it
Se non altro perché - che io sappia - fin qui non è esistito un solo movimento rivoluzionario o indipendentista al mondo che abbia previsto come prima fase di lotta la trasformazione artigianale di un trattore in un carro armato. È ben strano, no? che un'idea tanto buona non sia venuta in mente per prima a Michael Collins, o Mao Tse-Tung, o Che Guevara. E non una volta sola, ma due volte in vent'anni, malgrado tutte le considerazioni di natura anche semplicemente tattico-logistica, determinate peraltro dall'esclusiva natura che fa della capitale dei veneti una città unica al mondo: una città dove sono bandite le automobili, figurarsi i cingolati. Capirei ancora un motoscafo; ma l'idea che tutto sia possibile, l'insurrezione di popolo e di piazza, purché si riesca a piazzare almeno un paio di cingoli in Piazza San Marco, è qualcosa che sfida la nostra capacità di restare seri.

Possibile che una nazione millenaria, che sfidò imperi cristiani e islamici e seppe tener loro testa per tutto il medioevo e l'età moderna, possibile che debba necessariamente risorgere in un capannone, fissando mitragliette a una ruspa. Questi artigiani che nelle loro officine truccano e saldano, come possono realmente pensarsi gli eredi di una nazione di mercanti cosmopoliti? Sembra quasi il contrario, una rivincita dell'entroterra operoso sulla laguna: Venezia come frontiera di qualcosa che resta saldamente ancorato a terra, alle province per secoli contadine e poi, per un tempo breve, troppo breve, motore ausiliario dell'Italia industriale. L'ultimo ad andare in rodaggio veramente - nel dopoguerra era ancora zona depressa - e di conseguenza il più deluso per la fine di un benessere che ha fiutato per poco, una generazione appena: e tirando un po' troppo su col naso, se mi è concesso.

Mi è concesso. Mi separano dal Veneto terragno settanta chilometri, un'inflessione più celtica, e nient'altro. La rabbia e la frustrazione che si vedono in giro sono le stesse, e fondate sulle stesse basi malferme: l'idea che ci sia stato tolto qualcosa che doveva essere nostro per diritto, benché lo avessimo appena afferrato. I cinesi non si dovevano permettere di uscire dal sottosviluppo e farci concorrenza abbattendo i costi della manodopera. I turchi non dovevano attentarsi a comprare a prezzi di rottami i telai industriali che smantellavamo. Noi eravamo i leader del settore, i più bravi, ce lo dicevano tutti, lo saremmo ancora, è colpa dell'euro. Della Cina. Del comunismo. Del partito democratico. Degli extracomunitari. Dei politici ladroni.

Il tanko nel '97: a chi appartiene?
Chi ha deciso di esporlo alle fiere?
Al bar con un po' d'impegno puoi riuscire a dar la colpa a tutti in una frase sola: sarà colpa dei comunisti del partito democratico in combutta coi cinesi e gli extracomunitari in genere che hanno governato per sessant'anni regalandoci l'euro. Chi dice queste cose non ha dedicato molti anni del proprio percorso all'istruzione, né era previsto che lo facesse: fino a qualche anno fa chi si laureava, in zona, guadagnava a trent'anni la metà di chi aveva iniziato a diciotto. Studiare era semplicemente la scelta sbagliata - e anche oggi, che una laurea fa comodo pure per il concorso alla nettezza urbana, non è che la cultura ti offra le soluzioni: ti fa solo vedere meglio i problemi. Se hai studiato economia sai che la piccola impresa è spacciata, con o senza euro: conviene scappare. Se hai studiato idraulica sai che il momento in cui i vasi comunicanti della forza lavoro mondiale ritroveranno un equilibrio è ancora lontano. Se ti sei laureato in filosofia puoi prenderla con filosofia. Chi ha iniziato a lavorare a sedici anni può trovarsi con le mani che lavorano da sole, in officine che lasciar vuote è un peccato; qualche pezzo di ricambio ormai era stato ordinato, e in breve il tanko è come se si costruisse da sé: sta al piccolo artigiano come il bozzo al baco di seta, una fiaba a Carlo Gozzi.

Ma metti la comodità,
vai all'estero e a sera sei a casa.
Nel frattempo il cervello si dà da fare per trovare una giustificazione, l'autonomismo, certo, l'indipendentismo, certo, certo, la Serenissima. Ma il Veneto dei dogi, la crudele multinazionale che si vendette persino i resti di mamma Bisanzio, e bombardò il Partenone; la Venezia che trionfò a Lepanto e resistette altri due secoli inventando il turismo di lusso, non c'entra davvero molto. La patria che hanno in mente gli hobbisti che saldano mitragliette ai motocingolati è l'eroica Capannonia, quel nano-paese tutto villaggi industriali, tutto fabbrichette, il residuo emotivo di un sogno durato una generazione e mezza: la Piccola Impresa. Si stava così bene quando abitavamo tutti sopra l'officina del papà. Tutti proprietari, tutti padroncini, tutti con una mercedes o una porsche in leasing, perché è finito tutto questo, perché? Maledetto euro.

Non è nemmeno una coincidenza che, con tante cause perse in cui buttar via i soldi, i parlamentari cinquestelle abbiano deciso di devolverli a un fondo per la Piccola-Media Impresa: un sogno così italiano, forse iscritto nel nostro destino territoriale: in fondo siamo davvero piccoli, e a parte qualche parentesi incresciosa non abbiamo mai molto sgomitato per conquistarci altro spazio vitale. Chi ha studiato Storia sa, con una relativa sicurezza, che siamo spacciati com'era spacciata Venezia il giorno in cui Vasco De Gama vide le coste indiane: questo non le impedì di vivere ancora secoli di meravigliosa decadenza, e forse anche noi ne abbiamo il diritto. Forse l'Unesco dovrebbe fare qualcosa per i nostri Capannoni, dichiarare il nostro cemento unico al mondo. Capannonia sorgerà come una piccola patria di officine - costruiremo tutto un pezzo alla volta, i carri armati e gli acquedotti e le mura intorno alle nostre Zone Industriali. Nessuno avrà il diritto di farci la guerra, o meglio se ci attaccheranno dovranno farlo ad armi pari, con catapulte costruite secondo le antiche ricette. Verranno i turisti non solo a carnevale, saranno felici di travestirsi da cavalieri o Casanova, il cambio con la lira sarà favorevolissimo. E la legge Merlin, non c'è bisogno di dirlo, abolita. Insomma Capannonia un senso ce l'avrebbe, una storia potrebbe avercela, io che ho studiato storie forse mi ci dovrei applicare, mi domando se in fin dei conti non sia mio preciso dovere di padano.

Invece ripasso geografia, di solito a questo punto dell'anno siamo nei pressi del Canada e io richiamo l'attenzione su alcuni dati: è il secondo Paese del mondo per estensione, più grande degli USA, ma ha un decimo dei suoi abitanti. Un sacco di spazio, insomma. Certo non è coltivabile, per adesso; bisogna vedere come si scioglierà il permafrost. Nel frattempo si è aperto anche il passaggio a nordovest, pensate. Insomma è là in alto a sinistra sul planisfero, lo avete visto? Si parlano inglese e francese, un motivo in più per studiarle bene.
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La Brianza è un groppo in gola (che non va né su né giù)

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Il capitale umano (Paolo Virzì, 2014)

Quanto costa una vita intera? Nulla: un'imprudenza, un sentiero di notte, una jeep che sbanda, un cellulare spento. Oppure cinquecentomila, ma facciamo anche settecento, novecento; un lotto in centro, un teatro, tutti i tuoi sogni di essere una persona migliore, la faccia che guarderai allo specchio da quel giorno; e un bacio. Per chi li pagheresti. Per la persona che ami o per quella che ti fa sentire più in colpa? C'è qualche differenza? A diciott'anni, forse c'è. A quaranta, a quaranta magari mi capirai. Ma non te lo auguro.

Del film ormai avete letto tutto. Avete fatto male, scordatevi tutto: le polemiche preconfezionate sulla Brianza, le tirate sulla crisi-dei-valori, sulla civiltà-del-denaro eccetera. Ognuno poi ha il diritto di vendere il proprio prodotto come può, ma Il capitale umano è un film più intelligente di quello che vi stanno presentando in tv e sui giornali. Che poi leghisti cari è troppo facile prendersela con Virzì: chi ha le palle per denunciare i pregiudizi coi quali William Shakespeare sfigurò i sani e operosi cittadini della Verona medievale? Il Capitale umano non parla di Brianza più di quanto parli di Connecticut o di qualsiasi altro distretto imborghesito del mondo; non demolisce la nostra generazione (senz'altro povera di valori e assetata di denaro) più di quanto non demolisca qualsiasi altra; a Romeo e Giulietta in fin dei conti è andata bene. Fossero invecchiati, avrebbero senz'altro costretto i figli a un matrimonio d'interesse. Se pensate di trovarvi davanti all'ennesimo romanzo di una grande famiglia spietata e decadente, potreste uscire delusi: non so se quanto Virzì Piccolo e Bruni ne siano consapevoli, ma il pescecane della finanza esce dal film meglio di quasi tutti i comprimari. Forse erano così convinti che bastasse metterlo a capotavola di consiglio d'amministrazione per renderlo il Cattivo; non hanno spinto il pedale del grottesco, e il risultato è un Gifuni mediamente stronzo, ma assolutamente umano.


Quel che è riuscito a fare Bentivoglio col suo bauscia, invece, ha del miracoloso. Sul suo personaggio il film rischiava tutto. Sappiamo che Virzì arriva al drammatico dalla commedia all'italiana - sappiamo anche che non è stato un movimento così brusco; che il dramma se lo portava dentro sin dal primo film. Ma da quel tipo di commedia Virzì portava un gusto grottesco dei personaggi, soprattutto secondari, che la sensibilità per le stratificazioni sociali e culturali rendeva spesso dei bozzetti: il professore de sinistra, il figlio di papà, il pancabbestia, eccetera. Potevamo pensare che passando al thriller Virzì avrebbe rinunciato ai bozzetti (già negli ultimi due film erano più rari, benché indimenticabili). Ci sembrava giusto. Anche se ci sarebbe dispiaciuto, perché diciamo la verità: a noi i bozzetti grotteschi di Virzì sono sempre piaciuti; sono uno dei motivi per cui Virzì ci piace più di tutti i suoi compatrioti, ormai, e forse questo non fa di noi dei veri cinefili ma non ce ne frega niente, noi daremmo dieci Jep Gambardella o come cavolo si chiama per un altro prof Iacovoni. Anche se all'estero nessuno se li filerà mai, i tuoi leghisti in cravatta verde e il Va' Pensiero che gli suona in tasca, i tuoi critici teatrali sudici o sociopatici. C'è un personaggio che sta in scena tre secondi tre - la sorella dello speculatore - ed è perfetta, noi amiamo Virzì per queste cose. Detto questo, non puoi pensare che uno stereotipo di bauscia possa reggere la prima mezz'ora di un thriller. In teoria, perlomeno. Poi ti ritrovi davanti a Bentivoglio, conciato com'è conciato. Ha a disposizione una paletta ristrettissima, deve parlare come Faso di Elio e le Storie Tese attraverso un ghigno congelato da caratterista di commediaccia sexy. Non puoi provare angoscia per un tizio così.

Non puoi? (continua su +eventi!)


È una scena che sembra ritagliata da un altro film, però è divertente e mi ha fatto tirare il fiato.
E invece ce la fai. Bentivoglio ce la fa. Non so come ne sia in grado, avrei voglia di tornare a rivederlo soltanto per capire come fa. Dopo venti minuti siamo in pena per lui. Lo vediamo andare a sbattere contro un muro che si è venduto e comprato da solo, e vorremmo fermarlo. Dopo un’altra ora di film lo odieremo. Ma sarà troppo tardi; per un attimo siamo stati dalla sua parte, abbiamo perso l’anima con lui. Che altro dire. Basterebbe Bentivoglio a chiudere la discussione, e invece è solo il preludio. Puoi credere anche solo per un’istante che Valeria Golino sia una psicoterapeuta della mutua? Puoi. Puoi empatizzare con Valeria Bruni Tedeschi che fa la ricca annoiata? Chi se lo sarebbe aspettato da lei, lo so, eppure puoi. È passata più di un’ora e gli unici che non ti hanno particolarmente colpito sono i giovani. Stanno sullo sfondo, fanno le cose antipatiche da giovani. Poi tocca a loro e ti si rovescia tutto il film – magari anche lo stomaco: capisci che tutti groppi in gola che ti hanno apparecchiato fin qui ti servivano solo a preparare quel vuoto in pancia che si prova a 18 quando fai una cazzata veramente grossa.  C’è di nuovo un Romeo e una Giulietta che si fottono la vita in 24 ore, e potrebbe, dovrebbe andare a finire altrettanto male.

Il Capitale umano è un thriller vero: un congegno spietato, realizzato senza rinunciare a frecciatine di costume che qualcun altro giudicherà non equilibrate. Io mi dichiaro vinto nel momento in cui Valeria Bruni Tedeschi prende il controllo e si scopa Nostra Signora dei Turchi – la buona vecchia commedia all’italiana, commerciale, industriale, che profana il cadavere del teatro sperimentale sussurrandogli Ti Perdono anch’io, lo sai cos’eri per me? Un buon sottofondo per pomiciare, niente più, il Fausto Papetti dei ricchi sofisticati. Un giorno forse se ne accorgeranno anche gli assessori leghisti. Si sveglieranno sul divano all’improvviso davanti a un vecchio Virzì su Rete4 e finalmente lo guarderanno, finalmente si renderanno conto che l’egemonia culturale di sinistra non ha mai avuto un accusatore altrettanto feroce. Filosofi, sindacalisti, insegnanti, radical-chic, no-global, non ne ha risparmiato uno solo: avreste dovuto adottarlo, coccolarlo, invitarlo alle sagre della polenta, ma veniva da Livorno e andava da Fazio, forse da lì l’equivoco. Il Capitale umano non contiene rivelazioni sconcertanti sulla crisi di valori dell’occidente, ma mostra a ogni adulto di che nodi sono fatti i cappi che ci stringiamo al collo: è l’insoddisfazione che ci fa commettere cazzate, le cazzate ci sprofondano nel senso di colpa, dal senso di colpa riemergiamo adulti e disponibili a pagare qualsiasi prezzo, a coprire qualsiasi crimine. Che altro dire. Tenete il cellulare sempre acceso, perdio, sempre, magari c’è qualcuno stanotte che ha bisogno esattamente di voi. Per quanto disperati possiate sembrare a voi stessi.

Il capitale umano è al Cityplex di Alba (15:30, 17:45, 20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (15:10, 17:35, 20:10, 22:35); all’Impero di Bra (18:20, 20:20, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:10, 20:20, 22:30). Non ci sono molte scuse per non andarlo a vedere, a parte Peppa Pig.
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Si scherza, maiale

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Suona il telefono, tu stai sicuramente facendo qualcosa di più interessante. Però chi lo sa, magari è una chiamata importante; così rispondi. È Calderoli.

Calderoli che balbetta e che t'informa che nelle prossime ore, su internet e sui giornali, compariranno notizie su di te, su di lui, che sono tutte una montatura, insomma lui non voleva dire quello che è stato detto da lui, un casino, un gran casino. Sarebbe probabilmente un casino anche se non provasse a spiegartelo Calderoli. Ma, insomma, per farla breve: orango tango.

A capo di cinque minuti, cinque minuti della tua vita che sarebbero preziosi anche se non fossi un ministro della repubblica, hai capito più o meno questo: Calderoli durante un comizio ti ha dato dell'orango tango. Però la cosa è arrivata ai giornali e quindi Calderoli adesso si sta scusando con te. Calderoli infatti non intendeva davvero paragonarti a un orango tango. Cioè, insomma, Calderoli a un comizio ha evocato un orango tango, ma si sa cosa succede ai comizi, no? Ai comizi leghisti, insomma. Si beve, si canta, se ne dicono tante, e insomma... orango tango. Ma non voleva veramente dire orango tango. Se non fosse stato un comizio, se non fosse stato Calderoli, non avrebbe mai detto orango tango. Purtroppo è capitato di essere a un comizio, ed essere Calderoli. Ma poteva capitare a chiunque, no? Di nascere Calderoli. Non lo si può veramente incolpare di questo, e così in un qualche modo bisogna pure perdonarlo, congedarlo, metter giù il telefono, ché i minuti sarebbero preziosi anche se non fossero i tuoi.

Solidarietà al ministro Kyenge, che ha ricevuto la telefonata che nessuno vorrebbe ricevere, e pare sia riuscita a metter giù senza mandarlo a cagare. Io non sono ministro della repubblica e quindi posso: Calderoli, da bravo, a cagare. E attenzione: quella cosa che ai maiali piace razzolare nelle loro feci... è una leggenda. Lo fanno solo se sono costretti, in cattività. Sono animali relativamente puliti. Anche tu hai ancora tanto spazio a disposizione, pulisciti almeno la bocca.
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Di libri basta uno per volta

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La mia solidarietà al sindaco di Verona Flavio Tosi, che ieri, nel tentativo di difendere il buon nome di Alessandro Manzoni dalle sparate stagionali del suo ex boss, Umberto Bossi, ha commesso una gaffe tutto sommato comprensibile. Bossi, lo avrete sentito, aveva definito Manzoni "un grande traditore, una canaglia", per via di quel famoso risciacquo dei panni in Arno, grazie al quale gli italiani dell'Ottocento ebbero una lingua letteraria moderna molto prima che una nazione. Per l'ex leader della Lega si trattò di un tradimento, ordito da un "re"; non è ben chiaro quale, visto che nel 1827, mentre Manzoni si stabiliva a Firenze col proposito di migliorare il suo italiano, sul trono sabaudo sedeva ancora l'arcigno Carlo Felice.

A Bossi, comunque, Tosi ha replicato che "Manzoni ha scritto dei romanzi meravigliosi, veramente avvincenti: è un grande della letteratura italiana". Sono parole commoventi, anche se non venissero da un esponente della Lega Nord, anche se le avesse proferite un italiano qualunque: è sempre commovente vedere che malgrado tutti gli sforzi della scuola per farcelo odiare, Manzoni continua ad avere degli ammiratori genuini, anche ingenui, come ad esempio il sindaco Tosi.

L'ingenuità di Tosi è tutta qui... (continua sull'Unita.it, H1t#139).

L’ingenuità di Tosi è tutta quiper quanto Manzoni sia un grande autore, un classico della nostra letteratura, non si può proprio affermare che abbia scritto “dei romanzi meravigliosi”, per il semplice e tristissimo motivo che ne ha scritto uno solo: i Promessi Sposi. Certo, lo ha scritto almeno tre volte. La prima stesura era così diversa che per molti studiosi si tratta di un romanzo a parte; gli hanno anche trovato un nome, il Fermo e Lucia. Però alla fine si tratta di uno scartafaccio che Manzoni non volle mai pubblicare; e la storia è più o meno la stessa che leggiamo nell’unico romanzo pubblicato.
Tosi è stato veramente sfortunato. Con qualsiasi altro romanziere, quel plurale (“romanzi meravigliosi”) sarebbe andato benissimo. Di solito di romanzi uno scrittore ne scrive più di uno, se non muore veramente giovane. Manzoni è l’eccezione. Un’eccezione veramente straordinaria: cominciò a scrivere di Fermo e Lucia nel 1823 (aveva trentasei anni); terminò di pubblicare l’ultima versione nel 1842, quasi vent’anni dopo. Nel frattempo scrisse tantissime altre cose: due tragedie, e tanti saggi, tra i quali uno a proposito “Del romanzo storico, e, in genere de’ componimenti misti di storia e di invenzione“, in cui si conclude che questi romanzi misti di storia e invenzione (reality e fiction, si direbbe oggi) sarebbe meglio non scriverne più. E infatti non ne scrisse più, costringendoci a concentrarci su quel suo unico meraviglioso e tormentato tentativo. Se ne avesse scritto anche solo un altro, magari i Promessi sposi non sarebbero diventati quell’orribile feticcio scolastico che a tutti ricorda almeno un’interrogazione finita male.
Tosi non si è fermato lì, ma è riuscito persino a indicare il nome di un altro romanzo di Manzoni: la Storia della colonna infame, che un romanzo effettivamente non è, anche se è difficile indicare che cosa sia. All’inizio era un blocco di pagine all’interno del Fermo e Lucia, che poi prese un’altra strada. Sicuramente è una cosa “meravigliosa” e “avvincente”: su questo il sindaco di Verona ci ha azzeccato. È anche un’opera straordinariamente moderna, in cui si narra senza concessioni alla fiction un orribile fatto di cronaca del Seicento, un processo-farsa intentato a due untori, e si riflette sulla credulità umana, sulla macchina giudiziaria, sulle dinamiche dell’infamia, eccetera – forse è il libro di Manzoni che è più attuale oggi. Purtroppo no, non è un romanzo, ma è davvero più interessante di tanta roba esposta nelle vetrine quest’estate; forse varrebbe la pena di chiamarlo “romanzo”, giusto per farlo leggere a chi dai saggi si tiene rispettosamente lontano. Non sarebbe certo la prima volta che si fa passare per romanzo una cosa che non lo è, e in fondo che c’è di male? Vuoi vedere che in fin dei conti Tosi non ha tutti i torti?http://leonardo.blogspot.com
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Il leghista di bronzo più perenne

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Lo so che probabilmente non è né il luogo né il momento, ma in fondo all'Unità mi hanno sempre lasciato scrivere tutto quello che volevo, e stamattina voglio scrivere qualcosa che mai avrei immaginato: un elogio a Matteo Salvini, leghista infaticabile.

E dire che di tutti i leghisti era quello che a pelle sopportavo di meno. Forse perché suo coetaneo, ero portato a sottostimarne la consistenza. Mi indisponeva soprattutto quel suo eterno corruccio da malmaturo, provato e riprovato allo specchio: quella smorfia da camionista incazzato al bar, lui che in realtà veniva da un liceo classico e che probabilmente capiva più il greco antico che certi dialetti bergamaschi. Quando era europarlamentare davo per scontato che non riuscisse a capire dove si trovava e perché: amavo immaginare lui e il suo collaboratore Franco-fratello-di-Umberto Bossi che vagavano per Bruxelles senza riuscire a decifrare la mappa bilingue della metro, con grande scorno dell'Europa delle Regioni. Tutti pregiudizi, i miei, tutti parti dell'invidia. C'è voluta una congiuntura mondiale, il crollo del berlusconismo e l'esaurimento del bossismo, perché me ne accorgessi. Del resto è nella tempesta che si vedono i veri capitani, e Matteo Salvini questo è, un capitano coraggioso che non lascerà la Lega finché non sarà salva l'ultima donna, l'ultimo bambino, e poi calerà a picco con lei - ma non è detto.

Non è affatto detto. Gli ultimi sondaggi, vatti a fidare, dicono che regge sul sette per cento. Davvero niente male per un partito terremotato. Le ragioni della tenuta le hanno messe per iscritto in tanti: la Lega ha uno zoccolo duro, la Lega ha sempre un piede nell'antipolitica, la Lega non si è sporcata col governo Monti eccetera. La Lega, aggiungo io, può contare su cavalli di razza come Salvini, che in questi giorni in tv ci sta mettendo la faccia senza mollare, non indietreggiando davanti al ridicolo, regalando al suo partito performance assolute come quella di ieri da Giletti... (continua sull'Unità, H1t#123, speriam bene).

Gothenburg_Wreck

Elogio del leghista Salvini










Di fronte al tiro incrociato di qualunquisti e governativi, Salvini si è messo in faccia la solita smorfia e ha tirato dritto coi suoi soliti slogan, ormai dei mantra, ma perdio, funzionano. I-Leghisti-Che-Sbagliano-Pagano-Due-Volte. Cosa significhi non si sa, per ora non ha pagato niente nessuno, ma ormai quando lo dice ci credo anch’io. Congeliamo-La-Rata-Dei-Finanziamenti, una cosa tecnicamente impossibile, ma nessuno in sala osa farlo presente. La grande sceneggiata di Bergamo, nel suo racconto, è già Storia, è già Mito: una sala della Pallacorda, un soviet supremo, una cerimonia di purificazione, solo i leghisti sono capaci di spazzare via lo sporco dai loro vertici; forse perché solo i leghisti sanno dove si comprano ancora le vecchie scope di saggina (geniali! Per favore, politici italiani, licenziate tutti i comunicatori che vi tengono aggiornati gli inutili profili twitter, e assumete il leghista che ha avuto l’idea di sprayare la Ruota delle Alpi sulla scopa di saggina).
Mentre capitan Salvini lotta con tutte le sue forze sul ponte mediatico, in cabina di comando regna il caos. Il padre annebbiato del Trota blatera di complotti e minaccia di portarsi via il simbolo (sai che perdita: i leghisti un simbolo se lo reinventano in tre settimane, non sarebbe la prima volta). Maroni gongola troppo per tenere in mano il timone, Tosi sta già calando le scialuppe ché non si sa mai. In futuro sapremo se liquidare come unico capro espiatorio una signora che è al fianco di Bossi da sempre, e che sa tutto di tutti, sarà stata la manovra geniale che a prima vista non sembra. Forse alla fine la Lega colerà a picco, perché in realtà di manovratori capaci non ne ha molti. Ma sul piano della comunicazione, giù il cappello: c’è tantissimo da imparare.
Ieri da Giletti c’era anche un’esponente del PD a fare da sfondo all’eroico Salvini. Non importa quale; non ha fatto una figura altrettanto memorabile e non era nemmeno previsto che la facesse. Nemmeno il Veltroni dei giorni migliori, nemmeno un redivivo Berlinguer riuscirebbero ad apparire convincenti in questo momento, se l’ordine di scuderia è difendere i rimborsi elettorali a pioggia e la riformina proposta di concerto con UDC e PDL. Onore a chi ci prova, ma davvero l’impresa è impossibile. Tanto che ci si domanda se ne valga la pena.
Va bene, non facciamo i qualunquisti. La storia la sappiamo. Il PD non è un partito azienda, né un movimento d’opinione; è un partito di quadri, che non vivono solo della parola di Dio o di Bersani. La contrapposizione ventennale con Berlusconi non consentiva di andare per il sottile in materia di finanziamenti: il nemico era un tycoon, bisognava arrangiarsi. Ma c’era modo e modo, e Lusi probabilmente non è stato l’unico ad approfittarne. È andata così: però è inconcepibile che quella faccia di bronzo di Matteo Salvini dia lezioni al PD. È imbarazzante che Renzo Bossi, dimettendosi, mostri la via a Filippo Penati. Non è una questione di correttezza, non è una questione morale: è una pura e semplice questione di comunicazione. Quelli hanno scialato molto più di noi, ma ne stanno uscendo a testa alta, o perlomeno ci provano. Il PD è l’unico partito che si faceva controllare i bilanci, e in questi giorni si sta presentando come il difensore dei privilegi della casta partitocratica. C’è qualcosa che non va. Forse ci manca qualche faccia tosta, ma tosta veramente. Come quella di un Salvini. http://leonardo.blogspot.com
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Scopa ciula scopa

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La scopa di Damocle

A questo punto della settimana magari vi siete un po' rotti di ascoltare discorsi sui malvagi leader leghisti disonesti che hanno deluso i militanti innocenti, i fieri attivisti che ce l'hanno ancora duro e puro. Vi va di sentire un'altra campana, magari un po' stonata come certe squille lombarde dal battacchio fesso? Ecco, secondo me la questione morale leghista non esiste. Secondo me ai militanti leghisti non gliene è mai fregato niente che un Bossi o una Mauro o un eventuale Calderoli s'intascassero qualche rimborso o qualche mazzetta qua e là. Niente. Meno che zero. Io la penso così, anche perché l'alternativa è ritenerli tutti imbecilli, gli Elmi, dal primo all'ultimo: non dico che non ce ne siano in discreta percentuale, in fondo in molti distretti dell'Alta Italia è un prodotto tipico; ma tutti ciula, tutti mona, i leghisti, no.

Eppure è un po' quello che in questi giorni si lascia intendere: vuoi per semplificazione giornalistica, vuoi per razzismo, vuoi perché talvolta agli stessi leghisti conviene recitare la parte dei tramortiti (guarda per esempio Bossi che alibi perfetto si è trovato). E così è da due settimane che ci raccontiamo che all'improvviso si è scoperto che la Lega ruba, ooooh! Siamo nati ieri, ci siamo dimenticati della CrediEuroNord, dell'Enimont, di qualsiasi pendenza giudiziaria di Bossi & co. Siamo nel 1992, stiamo tutti risparmiando le monetine per poi tirarle a Bettino Craxi. E facciamo finta di non ricordare che anche con Craxi andò così: tutti sapevano, tutti lasciavano fare, finché ad un tratto tutti si stancarono, tutti cascarono dal pero. Ma Craxi non cadde perché rubava. Aveva rubato per tanti anni e la gente ci scherzava su: alcuni persino orgogliosi dello stile che ci metteva, del decisionismo sbarazzino con cui ci sifonava. Craxi cadde perché a un certo punto gli italiani si resero conto che come ladro aveva fatto il suo tempo, che non era più un fattore di rinnovamento; il muro di Berlino era caduto e si voleva provare l'alternanza tra ladri di schieramenti diversi; magari controllandosi a vicenda avrebbero rubato meno, chi lo sa! Proviamo! E Craxi non voleva, Craxi diceva agli italiani non votate il referendum, andate al mare, Craxi da ladro internazionale e innovativo era all'improvviso diventato un reazionario brigante borbonico, e a questo Ghino di Tacco retrivo gli italiani dissero no! Al mare vacci tu. E non tornare più. Certo, la magistratura diede una mano, ma a volte, senza offendere, la magistratura italiana assume le movenze di quel tipo di bestia che prima di attaccare controlla che la preda sia già moribonda. Con Craxi andò così. Con Forlani andò così. Con Berlusconi no, Berlusconi moribondo non lo è nemmeno adesso. Con Bossi e il cerchio magico, invece...

La notizia non è che siano ladri. O pensate che il leghista fino a due settimane fa considerasse Renzo Bossi un infaticabile lavoratore e un brillante studente, fiore della meritocrazia insubre? Il leghista non è un abitante della luna, il leghista in fin dei conti è un italiano. Un arci-italiano, che in quanto tale tende a fottere lo Stato nella misura delle sue possibilità: se ha una fabbrica evade, se ha un'attività non fattura, se non ha niente si arrangia a non pagare le multe, l'importante è fottere qualcosa alla collettività. Uno così fino a sei mesi fa secondo voi si poneva il problema della dichiarazione dei redditi della famiglia Bossi? Che i Bossi suggessero risorse dello Stato era quasi doveroso, un ossequio allo spirito antistatalista e anarcoide del movimento. E se il senatur cominciava a essere troppo suonato per fregare, che almeno fregasse il figlio! E la moglie! E la badante! Quello che è successo negli ultimi sei mesi non è un'improvvisa riscoperta dell'insussistente etica leghista. Semplicemente, dall'ultimo raduno di Pontida in poi, i militanti si sono resi conto che Bossi è alla frutta. Fisicamente, non moralmente. Le avvisaglie si erano avute con la surreale avventura dei ministeri a Monza - intendiamoci, all'inizio la storia poteva avere un senso: nel momento in cui si scopriva il bluff del federalismo fiscale, bisognava trovare un diversivo, alzare l'asticciola delle rivendicazioni localiste, e quindi perché non spostare qualche ministero. Il problema è che invece di trasformare la richiesta in un semplice slogan, magari da portare in campagna elettorale, i leghisti quelle sedi le hanno volute aprire davvero: si sono visti un bluff da soli, indizio lampante di scarsa lucidità. Poi Pontida, il leader che raglia cose incomprensibili, un supplizio. Infine, lo scorso inverno, la figuraccia con Maroni, prima dichiarato indesiderato e poi frettolosamente recuperato. A questo punto la base aveva tutti gli elementi per formulare un giudizio preciso: mancava una scusa per liquidare il cerchio magico, e questo tipo di scuse in Italia la magistratura te le trova sempre, con un tempismo che a volta fa paura. Perché alla fine rubano tutti: però, in un qualche modo, quelli che rubano di più o più sfacciatamente, e che finiscono nei guai, sono quasi sempre i politici decotti.

Viene il sospetto che questa assurda legge, i rimborsi elettorali forfettari a fondo perduto, ce la siamo scritta così proprio per questo. Così siamo sicuri che rubano tutti: così, quando ci stanchiamo di uno o di un altro, la scusa per liquidarlo la troviamo in mezza giornata. Di sicuro è uno che ruba: se non ruba lui, ruba la sua compagna; o il figlio, o il tesoriere, qualcuno nei pressi che ruba c'è sempre: come potrebbe essere altrimenti, abbiamo innaffiato soldi dappertutto. I nostri rappresentanti hanno carta bianca: se non vogliono rendicontare le spese, pazienza: in compenso sanno di avere tutti una spada di Damocle placcata 24k sulle loro teste. Appena ci annoiano, appena ci infastidiscono, appena ci convincono di non essere più interessanti nemmeno per un siparietto a Ballarò, zac, sei un ladro, fuori dai piedi. E per una mezza giornata ci sentiamo anche dei severi censori, con la nostra brava ramazza in mano. Mandrie di ciula, questo siamo. Leghisti o no - non è un prerequisito necessario, no.
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I Bossi e gli allori

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Sono i giorni della passione di Umberto Bossi: storia straziante, che nasce già intrecciata ad aneddoti leggendari. Si racconta per esempio che a far crollare il Capo non sia stata la confessione di questa o quella ruberia, ma la scoperta che il figlio non si stava laureando, come pure aveva solennemente promesso al patriarca. L'episodio sembra scritto da uno sceneggiatore geniale, che la politica italiana non si è mai meritata: se le cose fossero davvero andate così, Renzo Bossi avrebbe deluso Umberto Bossi proprio mostrando di essere degno figlio di suo padre, che i libretti universitari li truccava 40 anni fa, millantando coi famigliari lauree in medicina e inesistenti impieghi all'ospedale.

Bossi era quel personaggio lì, il boccalone pieno di inventiva che nei bar della Valpadana conosciamo bene; in seguito ha fondato una lega che è diventata un movimento che è diventata un partito che ha cambiato la Storia d'Italia e gli ha fruttato anche qualche soldino, ma non ha mai smesso di essere quello lì: uno che non ha bisogno di titoli per fiutare dove va il vento, uno che non lo freghi. E invece l'han fregato i figli, che Bossi in un qualche modo avrebbe voluto diversi da lui: lui ci ha provato a farli studiare, ma niente da fare. È il problema della seconda generazione, anche questo in Valpadana lo conosciamo bene: il padre ignorante ma di cervello fino fonda un'azienda, in questo caso un partito: i figli crescono svogliati, il padre li manda all'università e loro si comprano la laurea: se nostro padre non ne ha avuto bisogno per fare fortuna, perché dobbiamo perdere tempo noi? La crisi dell'imprenditoria italiana si può anche raccontare così: giovani virgulti che non hanno studiato ereditano aziende a conduzione famigliare che erano innovative e concorrenziali vent'anni prima. Non resta che piangere miseria, dare la colpa ai cinesi e abolire l'articolo Diciotto. Nel frattempo si vota Lega, il partito che non ti fa sentire ignorante. Ma forse c'è un equivoco. (Continua e si commenta sull'Unita.it, H1t#121)

Il nord operoso ha un problema con la scuola, e con l’università in particolare. Per molto tempo non ci ha creduto; tuttora in molti distretti industriali la scuola dell’obbligo viene scambiata per un comodo parcheggio sulla via del laboratorio dei genitori, e l’estensione dell’obbligo alla prima superiore per un’odiosa imposizione statale, paragonabile alla leva militare: che senso ha passare un altro inutile anno sui banchi quando chi si mette a lavorare a 16 anni a 20 guadagna già il doppio di un laureato? Chi la pensa così non ha tutti i torti, anche se spesso vota Lega.
Però Bossi non la pensava proprio così. Lui davvero ci teneva che Renzo e Riccardo studiassero. Anche a lui sarebbe piaciuto avere un titolo di studio serio, se è vero come si racconta in giro che organizzò ben tre feste di laurea (senza laurearsi mai). Tutta la sua parabola famigliare e familista mostra una vera ossessione ben poco settentrionale per il ‘pezzo di carta’: lo stesso Belsito, ex buttafuori e poi tesoriere che nelle intercettazioni parla di tre lauree pagate alla “famiglia”, aveva ritenuto necessario procurarsi una maturità privata (in un istituto di Frattamaggiore, provincia di Napoli!) e due lauree tra Londra e Malta. Tutto questo magari non ha nessun senso. Ma potrebbe anche dirci qualcosa sul gruppo dirigente della Lega, che anche se era votata da operai e piccoli imprenditori, non era stata fondata da un operaio, né da un piccolo imprenditore: bensì da un boccalone con un libretto finto e un diploma preso per corrispondenza, sposato in seconde nozze con una maestra elementare di origini siciliane. Uno che quando il Nord tirava davvero, e portava l’intera Italia fuori dalla povertà, stava al bar, suonava la chitarra, e in casa raccontava di avere un posto in ospedale. Di uno così, nordisti laboriosi, vi siete fidati per vent’anni, perché? Forse perché non avete studiato abbastanza. http://leonardo.blogspot.com
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Ma Frattamaggiore, Na!

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Ma io, se mi devo calare in un'ottica padana - e io se voglio posso calarmi in un'ottica padana, vogliamo parlare di fenotipi? Di DNA? Ce l'ho senz'altro più padano di tanti che fanno i celti alle sagre di Pontida, per esempio, Renzo Bossi: vogliamo controllare il genoma di Renzo Bossi? il mio è più padano sicuramente.

Ma dicevamo. Se mi devo proprio calare in un'ottica padana, ecco, in quest'ottica quel che mi offende di Belsito non è certo la faccia tosta. Ché noi padani siam fatti così, pane al pane, vino al vino, krafen alle teste di krafen. Non è certo l'intraprendenza avventuriera di chi i soldi li fa prillare dalla Norvegia alla Tanzania, perché noi padani possiamo anche sembrare un po' rinchiusi su noi stessi, ma quando si tratta di sghèi, di baiocchi, di grano, noi non guardiamo più in faccia a nessuno, non c'è Blut e non c'è Boden, noi le svanziche le andremmo a tirar su anche nel condotto rettale del topiragno che ha fatto il nido nell'intestino del boscimano nella pancia del coccodrillo che si è inculato l'elefante. Né da padano mi offende la celtica irruenza con cui Belsito parcheggiava la porsc'caièn sulle strisce gialle, ché son gialle proprio per mostrare chi ci ha le palle per parcheggiarci sopra, e le palle con la porsc'caièn te le danno di serie. Volete sapere, da padano, cosa mi offende del caso del caso Belsito? Il diploma di maturità preso a Frattamaggiore (NA). Ecco. Questo è offensivo.

Voglio dire. Con tutti i diplomifici che ci abbiamo al nord. O non ne abbiamo abbastanza? Fior di scuole private che ti fanno diplomi bellissimi, su misura, e istituti parificati e radio scuole elettre e sacri cuori e figli dell'immacolata, Belsito, ci avevi qualcosa contro i figli dell'immacolata? Questa idea che i meridionali, posso chiamarli così?, questa idea che i nativi della provincia anticamente chiamata Terra di Lavoro, insomma, i terroni, ecco, questa idea che i magna-pastasciutta-a-sbafo sappiano taroccare un diploma meglio di un umile, onesto, intraprendente taroccatore del nord, ecco questo mi offende; e ribolle il sangue nelle padanissime vene. Vien quasi da rivalutare il Trota che avrà fatto un po' fatica, ma il diploma se lo è preso davanti a una commissione statale. Sta' a vedere che di tutto il mazzo è l'intellettuale.

Sorga dal sacro suolo un nuovo movimento veramente padano, incarnato da uomini puri, dai fenotipi acclarati, che non si vergognino di comprarsi i diplomi dagli onesti preti del nord. Augh.
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Un giornalista indica un vulcano

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Bocca insostenibile

Credo che i meridionali abbiano effettivamente qualche diritto di sentirsi offesi da Giorgio Bocca, che davvero scrisse su di loro cose affrettate e imprecise. Il suo disprezzo, davvero malcelato, non era occasionale: ha ragione Zambardino, esso rappresenta bene l'atteggiamento di una cultura tutt'altro che minoritaria e provinciale, tant'è che Bocca continuò a mostrarlo anche quando terminò la breve infatuazione per la Lega. Bocca è anche in questo caso un'epitome della storia italiana: un piemontese laico e democratico che sbarca nel sud ma non lo capisce, o meglio non capisce cosa ci sia di salvabile, e alla fine – complice la vecchiaia, che sgrava il fardello di speranze a lungo termine – si ritrova a dire Forza Vesuvio.

Di questo fanno bene i napoletani a indignarsi, mentre concludono le loro celebrazioni natalizie – magari quest'anno un po' più sobrie e austere – e si accingono a testare una volta in più i rodatissimi piani di evacuazione che dovrebbero mettere in sicurezza mezzo milione di abitanti nel caso il Vesuvio esploda davvero, visto che è tutt'altro che spento, anzi: la quarantennale eruzione è in ritardo di parecchio, e a questo punto qualsiasi cosa succeda potrebbe succedere piuttosto alla svelta e fare davvero molti danni. È curioso che nessuno ne parli mai. Di Bocca e dei suoi peggiori discepoli del nord sappiamo cosa pensare: è ingiusto aspettarsi informazione su un vulcano da chi per il vulcano fa il tifo. È più strano che ne parlino poco i meridionali, visto che il rischio di nubi ardenti e lapilli sulla superficie di popolosi centri abitati collegati da strade occluse dallo sverso abusivo di rifiuti...




...Voi, per esempio, che vi state toccando in questo momento, ecco, sì: Bocca non perdeva tempo a cercare di capirvi. Vi disprezzava. Buon anno, se non vi è di malaugurio.
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La dipendenza della Padania

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Allora se volete un parere (interessato), per me la Padania non sarà mai indipendente.


Finché la rappresentano dei buffoni, almeno. E questo ci lascia almeno dieci, quindici anni di tempo per organizzarci. La Lega per la dipendenza della Padania (H1t#92) si legge sull'Unita.it, e si commenta laggiù.

Ma perché i leghisti parlano di “secessione”? La risposta sembra scontata: ne parlano perché intuiscono che l'esperienza di governo è ormai finita, come nel 1994: e oggi come allora un bel battesimo nell'acqua del Padre Po può lavare via la puzza di compromessi e fallimenti romani che ha impregnato il partito negli ultimi anni. Il secessionismo può riportare molti delusi alle urne, rinsaldando lo zoccolo duro che nel 1996 regalò ai leghisti il risultato nazionale migliore di sempre: quel 10% che determinò la sconfitta di Berlusconi e l'arrivo di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Può anche darsi che stavolta la base leghista non ci caschi: d'altro canto Bossi e compagni non hanno molte alternative. Probabilmente il secessionismo per ora è un'opzione, un piano B, in attesa che a qualcuno venga in mente un piano A per il dopo-Berlusconi. Nel frattempo gridare la parola ai comizi fa notizia e non impegna.

Ma perché la parola è proprio “secessione”? Perché non il più nobile “indipendenza”? In fondo “secessione” è una parola che contiene già in sé una segreta consapevolezza della sconfitta. Un lapsus pesante, perché parlare di “secessione” significa ammettere che una nazione da cui secedere, l'Italia, esiste. Di solito, quando i secessionisti vincono, ottengono il diritto di scrivere la Storia, e nei libri si fanno chiamare indipendentisti. Se invece perdono, chi li ha sconfitti continuerà a chiamarli secessionisti: un nome che quasi sottointende il fallimento. Tanto più che nell'inconscio collettivo della generazione di Bossi e Maroni la parola “secessione” è indissolubilmente legata ai film western con le battaglie tra casacche grigie e blu (e i grigi le prendono quasi sempre). Non è l'unico caso in cui l'immaginario leghista si lega, consapevolmente o meno, a un precedente storico 'perdente': un altro esempio, anche questo derivato dai western, è quel famoso manifesto che istituiva un parallelo tra leghisti e pellerossa americani, condannati a vivere nelle riserve per non aver varato anche loro una legge Bossi-Fini. Questa predilezione per i perdenti può sembrare curiosa, specie se confrontata con l'immaginario berlusconiano, ossessionato da modelli di successo e autorealizzazione. In realtà, oltre a essere in un qualche modo complementare al berlusconesimo, il culto leghista per la sconfitta nobile ha precedenti illustri in altri movimenti nazionalisti: si pensi all'importanza che riveste per i serbi la battaglia – persa – di Kosovo Polje. La sindrome dell'accerchiamento, la percezione della sconfitta inevitabile che genera l'impulso al revanscismo, sono elementi costitutivi dei piccoli nazionalismi europei: quello che il leghismo è stato per una breve stagione (1996-2000) e che potrebbe ridiventare in tempi brevi. Ma funzionerà?

Potrebbe anche funzionare. Abbiamo un bel da ripetere che la Padania non esiste: certamente fino al 1996 non esisteva il concetto di nazione padana. Ma non è necessario guardare al passato, alla ricerca di chissà quale sostrato celtico, per vedere qualche crepa nell'unità nazionale. Concentriamoci sul futuro prossimo: le tensioni a cui la crisi economica sottoporrà l'Italia nei prossimi mesi e anni accentueranno ancora di più il dislivello già grave tra Nord e Sud. Se la situazione dovesse degenerare (default, uscita dall'Euro, eccetera), molti abitanti del nord potrebbero essere tentati da un partito indipendentista o secessionista che dir si voglia. Così, dopo aver perso vent'anni a dividerci tra filo e antiberlusconiani, potremmo buttarne altri venti dividendoci tra secessionisti e unionisti.

Insomma, nella situazione difficile che abbiamo davanti, lo spazio per un partito indipendentista della Val Padana c'è. Il problema (per i secessionisti autentici) è che questo spazio è occupato dalla Lega. E la Lega non è nata indipendentista, ma autonomista; ha scoperto l'indipendentismo abbastanza tardi, al termine di una prima burrascosa esperienza di governo. Persino negli anni ruggenti dell'invenzione della Padania, quando le camicie verdi si davano aria di milizia popolare e marciavano sul Po, mentre a Mantova apriva una specie di parlamento e il leader lanciava accorati inviti a uno sciopero fiscale che molti elettori leghisti praticavano già nel segreto dei loro reparti commerciali...  anche allora tutte queste iniziative somigliavano più a una messa in scena per spaventare Roma che ai prodromi di una vera lotta di liberazione. 

Tutto questo non poteva che deludere gli indipendentisti veri, che in effetti nei loro manifesti e blog parlano sempre piuttosto male della Lega. Ma in breve tempo il secessionismo di Bossi deluse anche il grosso degli elettori, che alle europee del 1999 – appena tre anni dopo il successo del '96 – punirono il partito con uno dei risultati peggiori, un misero 4,5 per cento che mise temporaneamente fine alla parabola secessionista. Bossi tornò nella tana del “mafioso massone” Berlusconi (parole sue), ottenendo un'alleanza che forse gli permise anche di risistemare le casse del partito. Da allora gli esponenti della Lega sembrarono dimenticarsi che il partito si chiamava, e si chiama ancora “Lega Nord per l'indipendenza della Padania” (un nome approvato da Luciano Violante, allora presidente della Camera, che lo trovava più costituzionale di Padania Indipendente). Ma domani?

Domani è un altro giorno. Ribadisco: un po' di spazio per un movimento indipendentista c'è. La teoria è che non ci sarà mai un indipendentismo vero, qui, finché quello spazio sarà occupato da un partito come la Lega, e da leader come Bossi e Maroni, che all'indipendenza e alla Padania non hanno probabilmente mai realmente creduto, nemmeno per un istante. E questa forse è una buona notizia. http://leonardo.blogspot.com  
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Mo an's'pol gnanc piò fér an gir, adésa?

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Oddio, mi piace pure il logo

Io Ferrero lo stimavo anche un po', quando faceva politica; poi è diventato il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e l'ho perso di vista. Ecco, l'altro giorno ha scritto a Napolitano per denunciare l'incostituzionalità del Giro di Padania. Cioè, seriamente: nella Costituzione secondo Ferrero ci dev'essere un codicillo da qualche parte che proibisce alcune competizioni ciclistiche associate ad alcune espressioni geografiche. E' anche vero che è un periodaccio da un punto di vista mediatico: non sta succedendo niente, i mercati vanno bene, la gente è soddisfatta del governo, e così un segretario di Rifondazione per farsi un po' di visibilità è costretto a crearsi dei casi un po' così. D'altro canto dove la trovi, un'altra manifestazione sportiva che riesci a disturbare anche con squadracce, pardon, con collettivi di poche decine di persone? Basta che ti piazzi in mezzo a una strada e qualcuno prima o poi casca e si fa male! E in tv ci vai garantito! Ci va anche Renzo Bossi, contestualmente, a lamentarsi dei cattivoni, ma probabilmente è un effetto collaterale sopportabile, se sei il segretario del Partito della Rifondazione Comunista e vedi vulnus costituzionali nelle gare in bici.
Allora io ho scritto che il Giro di Padania non è affatto incostituzionale, che la Padania esiste e che disturbare i ciclisti mentre fanno il loro lavoro non è bello, e l'ho scritto sull'Unità (H1t#90). Si commenta di là.

Io - sia chiaro - i leghisti non li sopporto. Non li sopporto quando promettono mari e monti e federalismi, e non ottengono niente, e fanno finta di niente. Non li sopporto quando si inventano lì per lì obiettivi di scorta, contentini da mostrare agli elettori che evidentemente prendono per fessi: i ministeri a Monza, ma per favore. Non li sopporto se fanno i barricaderi, quando la verità è che non sono mai riusciti nemmeno a organizzare una marcia sul Po come si deve. Non li sopporto quando minacciano di tirar fuori i fucili: ma ce li mostrassero davvero 'sti fucili un giorno o l'altro, poi ridiamo. Non li sopporto quando cercano di cavalcare l'ondata antislamica facendo i cattolici, e dieci anni fa si sposavano col rito celtico. Non li sopporto quando promettono di risolvere il problema dei barconi prendendoli a cannonate, e questa promessa criminale è forse l'unica che hanno mantenuto. Non sopporto un ministro che lascia un paio di motovedette a pattugliare un braccio di mare che pullula di profughi: si chiama concorso in strage. Non li sopporto quando succhiano soldi dallo Stato per riempire edifici pubblici di Soli delle Alpi, o per piantare quei ridicoli cartelli coi nomi dei comuni in dialetto, e io pago. Non li sopporto per centinaia di altri motivi che in questo pezzo non ci stanno. 

Ma se decidono di organizzare una gara ciclistica, e se la pagano loro, con gli sponsor e tutto quanto, beh, io non capisco cosa ci sia da eccepire. Anzi. Se da qui in poi Renzo Bossi e famiglia si limitassero a organizzare soltanto gare ciclistiche, tornei di calcio tra nazioni inesistenti, paraolimpiadi, concorsi di bellezza, sabba nei boschi, io francamente sarei molto contento e sollevato, magari andrei anche a sentirmi qualche concerto di cornamuse al festival di cultura celtica. Purché non succhino altri soldi al pubblico erario, come quando presero i miei soldi per pagare i figuranti rumeni di quel Barbarossa che persino la Rai di Mazza ha pena a programmare. 

Siamo in un periodo difficile, e lo sappiamo. Crisi economica, governo delegittimato eccetera. In mezzo a tutto questo è successo che Ferrero, segretario di ciò che resta del Partito della Rifondazione Comunista, abbia sentito l'urgenza di denunciare a Napolitano l'incostituzionalità del Giro di Padania. Come se i padri costituzionali avessero perso tempo a inserire nella Carta una tabella con le manifestazioni sportive ammissibili e quelle che invece proprio no. Secondo Ferrero il Giro sarebbe incostituzionale perché costituirebbe un atto di propaganda politica, e nella Costituzione di Ferrero (che deve avere parecchie pagine in più della mia) fare propaganda politica organizzando una gara in bicicletta è pro-i-bi-to. Invece mandare i propri attivisti a disturbare le gare altrui è ok. 

Del resto è così facile. Il ciclismo è sempre stato lo sport con meno barriere tra concorrenti e pubblico. Bastano poche squadre di disturbatori per mandare all'ospedale un ciclista, o un tifoso o un carabiniere, e far parlare di sé i telegiornali. Minima spesa, massima resa. Certo, con la stessa logica bisognerebbe denunciare anche l'incostituzionalità del Giro delle Fiandre, o della Freccia Vallone, o del Giro dei Paesi Baschi, e chissà di quante altre competizioni associate a entità geografiche non nazionali. Tempo al tempo, per adesso è fondamentale che Ferrero possa ribadire che “la Padania non esiste”. Buffo, l'anno scorso in questi giorni lo diceva Gianfranco Fini. E nella sua bocca suonava lievemente autoritario, il classico tic dell'uomo d'ordine che nega l'evidenza quando non si adatta al suo sistema. È davvero triste che Ferrero ripeta la stessa cosa. 

Che senso ha dire che la Padania "non esiste"? Le nazioni sono concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po' di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che qualche leader afferma che “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi. Proprio perché è una parola potenzialmente pericolosa, bisogna guardarsi dal farne un tabù. L'ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. La Padania esiste, è sempre esistita: è un comodo sinonimo del più tradizionale Val Padana. La usava Gianni Brera quarant'anni fa, senza nessuna velleità separatista; la usò nel 1975 Guido Fanti, presidente comunista della Regione Emilia-Romagna, per proporre un coordinamento tra le regioni intorno al Po. Hanno cominciato a usarla i leghisti, relativamente tardi, e probabilmente si deve a loro lo slittamento dell'accento (prima si pronunciava Padanìa, ma forse non era gradita la rima con Albanìa o Romanìa). 

La Padanìa è un'espressione geografica: è una valle sconsolatamente piatta, circondata da due catene montuose tra le più alte d'Europa. Se si eccettua la brevissima parentesi napoleonica, non è mai stata una nazione unitaria. È una delle macroregioni di cui è composta l'Italia: esiste tanto quanto il Mezzogiorno. Vi si può senz'altro disputare un giro in bicicletta, così come si corre ogni anno il giro di Lombardia o il Giro di Sicilia senza che la Corte Costituzionale abbia nulla da eccepire. Con buona pace di Ferrero e compagni, a cui in questi giorni argomenti più seri non dovrebbero mancare. Grazie comunque, perché spaccandogli il giochino (uno dei pochi innocui che avevano a portata di mano), mi avete ricordato un'altra cosa che non sopporto dei leghisti: il vittimismo. http://leonardo.blogspot.com
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Uomini e talpe

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Gli ultimi giorni dell'umanità 

- Io credo che chiunque abbia gli occhi per vedere, e non per piagnucolare, possa valutare da solo che uomini sono questi Bossi, questi Maroni, che di fronte a un'emergenza umanitaria gridano foera di ball, fanno portare cucine da campo a Lampedusa ma non le montano, aspettano che una folla affamata distrugga tutto e poi portano spazzini e telecamere per mostrare al loro elettorato che siamo alle invasioni barbariche; lasciano una ventina di marinai a pattugliare un enorme braccio di mare e poi stringono le spalle di fronte a una tragedia evitabile; tanto in mezzo c'è sempre una Malta o una Francia su cui puntare il dito, come lo punta sul compagno il bambino sorpreso dalla maestra. Non sono criminali, questi bambini che sventolando fazzoletti verdi sono arrivati a responsabilità di governo e ora giocano con la vita dei loro simili? Fino a che punto il proprio tornaconto elettorale li giustifica di fronte all'orrore, quanto costa esattamente in vite umane vincere le elezioni in Brianza? Chiunque ha occhi per vedere e non per piagnucolare può vedere quanto siano criminali, e quanto assassina sia la loro negligenza.

Eppure odiarli è difficile. Sono un po' troppo banali, questi amministratori locali del male; non fanno che incarnare i nostri difetti, trarli alle estreme conseguenze. La paura per lo straniero non l'hanno inventata loro; loro non hanno fatto che aprirci la loro piccola impresa, la loro fabbrichetta, trent'anni fa. Col senno del poi fu un ottimo investimento: da allora il sud del mondo ha quasi raddoppiato le bocche da sfamare, mentre il nord alzava le barricate; il nodo prima o poi doveva venire al pettine. Chiunque può calcolare quanto abbiamo perso in umanità, negli ultimi vent'anni di sbarchi: quanto rapidamente si è spenta quella solidarietà genuina che mostravamo per i primi albanesi e i cossovari, appena abbiamo capito che non erano piccoli fuochi, ma le prime scintille di un incendio mondiale. I nostri governanti non fanno che interpretare al meglio quello che siamo diventati: animali tutto sommato mansueti che quando li si preme ai confini hanno ancora qualche energia per mostrare i denti.

Ma gli intellettuali? Non devono mica farsi eleggere. Nessuno pretende che si facciano interpreti dei nostri istinti più bassi. Anzi, dovrebbero mirare un po' più in alto per definizione; nell'eclissi della nostra coscienza, conservare per noi il ricordo della luce, e ricordarci sommessamente che potremmo essere migliori di così, potremmo essere uomini e non bestie. E invece guarda che bel servizio ci rende Ceronetti, col suo temino xenofobo che nessuno gli aveva chiesto, ma che molte bestie apprezzeranno. “Non ho prove provabili”, scrive, “ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali”. Ed è tutto quello che gli serve per tenere la sua concione: l'istinto animale del pericolo. La sua “pulce nell'orecchio” non è un dato preciso, né un'informazione verificabile, nulla. Ceronetti ha il senso di ragno di Peter Parker, sente un complotto islamico dietro le spalle e ci vuole tenere informati, grazie Ceronetti, ma avrebbe potuto dircelo qualsiasi boccalone al bar. Sì, però vuoi mettere con uno che al bar ti cita Kafka e il cavallo di Troia? Ed eccolo qui, il più bell'argomento contro la cultura: se dai da leggere Kafka a una capra, ne brucherà le pagine e resterà capra; se lo dai a un scimpanzè rischi che te lo tiri in testa: lo hai dato a Ceronetti, guarda cosa ne fa.

La questione israeliana. Ma io qui credo che ci sia un refuso. Avranno tutti copiato e incollato male, andiamo, non è possibile che un pregiato scrittore lasci sulle colonne di un quotidiano questa frase, nel 2011: “Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro”. Si possono dire cose molto brutte su Israele, ma ci vive già più di un milione di arabi con diritto di cittadinanza. Voglio dire che lo sanno anche le talpe. O non lo sanno? E di cosa hanno discusso, per tutti questi anni, le talpe, sul giornale?

"In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano… Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco". 

Il Novecento è davvero la nuova Bibbia. Messo di fronte a un fatto nuovo, l'intellettuale cosa fa? Va a controllare se rientra nella casistica dei Sacri testi. C'è una folla di profughi? Andiamo a sfogliare il Libro dei Profughi del Novecento, dunque... ecco, ci sono soprattutto donne, bambini, vecchi che si trascinano. Invece nelle foto a colori del giornale, qui, sono baldi giovanotti, e allora fermi tutti: l'intellettuale ha scoperto un'impostura, un complotto. “ Il mio non è che un sospetto fondato”. Fondato sul suo senso di ragno, che gli anni hanno reso acutissimo.

Per fortuna che noi animali europei abbiamo ancora un forte istinto, lo si vede dalle bandiere ai balconi. “Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?” Meno male che Ceronetti comprende. Lui è collegato con l'anima profonda, ne sa interpretare i gridi silenziosi, per esempio quell'arcano, intraducibile “Foera di ball”, finalmente trova in lui il fine esegeta, il traduttore. Abbiamo bisogno di più gente come lui, che metta in belle parole i nostri istinti, che suoni il suo tamburino istoriato con fregi Novecento mentre noi scaviamo i fossati e alziamo i recinti.

“Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.”

Parole desuete, parole buffe, il consueto bric-à-brac letterario che ha sempre il suo mercato, per dire cosa? Niente, è destino di ogni temino poco ispirato risolversi in tautologia. Ceronetti aveva rivendicato nella prima riga il suo istinto del pericolo, “comune agli animali”; nell'ultima riga si lascia sfuggire che soluzioni umane al problema non ce ne sono. Insomma l'umanità è un lusso, grazie Ceronetti, ma a quel punto perché Kafka, perché Omero, perché le canzoni di gesta, perché pagarti un vitalizio? Non sarebbero soldi meglio spesi in barricate, filo spinato, alta tensione?

Ma forse no. Anche quando saremo lupi - e il giorno non è così lontano - avremo sempre bisogno di un lupo anziano e un po' più ispirato che ululi alla luna. Com'è da millenni, e la luna resta luna. E i cani restano cani. I più bravi, i più brillanti, se gli tiri Kafka te lo riportano.
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Ok Panico

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Mors vestra

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Col volto umano

“Signore, quelli bussano”.
“E che vogliono?”
“Le solite cose, ma stavolta...”
“Stavolta?”
“C'è un'aria diversa in giro, insomma, io non vorrei che succedesse un disastro...”
“È già successo”.
“Sì, ma dal punto di vista umanitario, insomma...”
“No”.
“Come dice, signore?”
“Sto rispondendo alla domanda che non hai il coraggio di farmi”.
“Prego?”
“Tu dovresti chiedermi: Signore, li aiutiamo? Apriamo i cancelli? Stanziamo quel che c'è da stanziare? Ma non hai il coraggio, perché conosci benissimo la risposta, e sai che è una risposta criminale, e hai paura che anche solo pormi la domanda ti renda in qualche modo complice. Ma io non ho bisogno di complici e non ho vergogna a risponderti: mi prendo tutta la responsabilità e ti dico: no. Non li aiutiamo. Non stavolta”.
“Con tutto il rispetto... questo non sarà il solito naufragio di gommoni”.
“No, probabilmente no”.
“Parliamo di una carestia. Forse milioni di morti. In generale la Storia non è generosa con chi lascia morire milioni di persone”.
“Fammi pensare. Cina 1960, Grande Balzo in avanti, carestia, dai venti ai quaranta milioni. Hanno tolto i quadri di Mao alle pareti?”
“Non ancora, no”.
“Del resto non è che mi interessi più di tanto del parere dei posteri, eh. Mi biasimeranno, diranno cose terribili su di me, con la loro ciotola piena. Hai mai letto Malthus, tu?”
“No, confesso di no”.
“È passato di moda un po' troppo presto. Insomma, questi hanno fame e vorrebbero entrare. Non gli basta mandare a casa qualche governante corrotto? Eppure sono belle le rivoluzioni, no?”
“Non danno il pane”
“Al massimo i rincari ti spingono a eliminare qualche sacca di corruzione. Ma non basta, la fame è più potente. La fame ti compra il biglietto per il gommone. Comunque stavolta no. Sparino pure ai gommoni, me ne prendo la responsabilità”.
“...”
“E non guardarmi con quegli occhi, son cose che capitano. Un giorno faranno un film su gente come me e come te. Te ti faranno dimesso e lagnoso, consapevole dei crimini che commetti, ma incapace di disobbedire gli ordini. A me invece regaleranno una faccia da matto fanatico. Ti sembro un matto fanatico?”
“No, signore, assolutamente”.
“Probabilmente ti sbagli, la storia la fanno i vincitori quando cominciano a sentirsi in colpa. Io sono il matto che preferisce salvare una sola scialuppa invece di aiutarne un'altra col rischio che affondino entrambe. Mi daranno del razzista. Pensi che io sia razzista? Che se fossero biondi e pallidi magari li aiuterei?”
“Se posso permettermi...”
“Certo che puoi”.
“Se le politiche si giudicano dai risultati, quello che stiamo per fare sarà interpretato da molti come razzismo”.
“Senz'altro, ed è il motivo per cui negli ultimi quarant'anni ne abbiamo fatti entrare un po' di tutti i colori, e adesso abbiamo elettori che si chiamano Mohammed e Chen, e saranno loro, capisci, saranno loro a votare per noi quando gli diremo che non possiamo aprire i cancelli a tutti i meridionali del mondo. Perché loro lo hanno sempre saputo: Malthus ce l'hanno nel sangue, loro. Sono quelli che si sono messi in moto per primi. Selezione naturale. E nessuno potrà darci del razzista, se applichiamo un banale principio di sopravvivenza. Tutte le specie viventi, i branchi e le comunità cercano di sopravvivere difendendo il loro territorio, e noi possiamo fingere di non essere un branco, possiamo affettare una cosiddetta 'cultura', ma quando i prezzi dei cereali salgono mostriamo i denti, come qualsiasi altro mammifero stanziale. Non c'è posto per tutti qui da noi. Semplicemente non c'è. Ce n'era un po', e chi è arrivato prima se l'è preso. E ora non ce n'è più”.
“Signore, posso essere franco?”
“Spara”.
“Questo è semplicemente fascismo. Fascismo dal volto umano, ma...”
“Preferiresti il volto disumano? Perché a questo punto il problema si pone in questi termini. Non credete a noi, che vi sbarriamo le porte con gentilezza? Aspettate qualche anno, e poi al nostro posto ci sarà un matto vero, un visionario che ha letto il mein kampf o altre stronzate, uno di quelli che con la scusa del revisionismo ogni tanto va a Bergen Belsen a controllare le cubature perché, dopotutto, il Novecento ci ha mostrato che qualche sistema rapido per far spazio, con un po' di impegno e fantasia...”
“Quindi, insomma, alla delegazione che gli dico?”
“Me lo hai già chiesto. Ti ho già risposto. No. Stavolta Non ci muoveremo. Diglielo. Conoscono il latino?”
“Dovrebbero”.
“Allora digli così: Mors vestra, vita nostra. Niente di personale”.
“E se si mettono a piangere?”
“Piangere? una delegazione diplomatica?”
“Signore, lo sa... in fin dei conti sono italiani”.
“E tu lasciali piangere, ne hanno il diritto”.

Secondo Roberto Maroni è “impensabile” che, di fronte a quella che definisce “emergenza umanitaria” di Lampedusa, “le istituzioni europee stiano solo a guardare”.
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Il Nordest in mano ai maestrini

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Ti dicono quali film non andare a vedere al cinema;
(tanto tu comunque non ci vai)
quali libri non puoi prendere in prestito in una biblioteca
(non li conoscevi, ma adesso li cercherai in libreria);
quali non puoi leggere a scuola...
(vorrà dire che li leggerai a casa, con più calma).
Sono i nuovi censori, sono tra noi. 

E sono anche più fessi del solito. Sull'Unita.it si parla degli occhialuti maestrini di Lega e PdL. Il pezzo si commenta qui.

Carissimo ELMO (Elettore Leghista Medio Operaio), ti scrivo perché vorrei che mi togliessi una curiosità. Ma tu il nuovo film di Placido sul bandito Vallanzasca, ecco, se il tuo partito non avesseproposto di boicottarlo, lo saresti andato a vedere?

Secondo me no. Non lo dico per snobismo, guarda –  si può dire di tutto di Michele Placido, tranne che faccia film per snob. Il fatto è che non mi pare che i leghisti vadano molto al cinema in generale. Almeno è l'unica spiegazione per il colossale flop di Barbarossa, ti ricordi? Sì, quel film in costume per il quale Bossi si fece dare da Roma un milione e seicentomila euro, che il regista Martinelli spese più che altro in Romania perché maestranze e figuranti rom costano meno (è la globalizzazione, Elmo, che ci vuoi fare, anche i portachiavi della Padania sono made in China). A quel film Bossi ci teneva tantissimo, è lo stesso Berlusconi a confessarlo in una celebre telefonata ad Angelo Saccà: “c'è Bossi che mi sta facendo una testa tanto con questo cavolo... di fiction di Barbarossa”. Ai tempi del lancio Martinelli si diceva sicuro di riempire le sale. Bossi (che fa una comparsata) vi ordinò: "andatelo a vederlo come se andaste a votare", ma tu e i tuoi compari non è che siate accorsi in massa, eh? Magari state solo aspettando che arrivi in tv, e francamente non vi biasimo.
Quello che non capisco è il tuo deputato, quel Davide Cavallotto, che pretende di farvi stare fuori dai cinema quando neanche Bossi è riuscito a farvici entrare. Lasciamo stare il senso dell'operazione, questo rigurgito moralista per cui i film sui banditi offenderebbero le vittime (per fortuna che queste idee non vengono agli americani, altrimenti non avremmo avuto il Padrino, Scarface, Goodfellas, Casino, Donnie Brasco...) Lasciamo anche stare che se ne parli proprio nella settimana in cui i tuoi rappresentanti si mostrano impermeabili ad altri moralismi (hai sentito che una delle bionde ospiti di Berlusconi era accreditata come "fidanzata con Renzo Bossi"?) Ma che senso ha proporre il boicottaggio delle sale a elettori e simpatizzanti che comunque di solito nelle sale non ci vanno?
È un po' come quando a Roma scioperano i tassisti, che a momenti nessuno se ne accorge, se mi passi il paragone. Anzi, forse è peggio. Perché lo sai come funziona coi film: l'importante è che se ne parli, anche male. Michele Placido questo meccanismo lo conosce bene, e di solito appena c'è la possibilità di fare un po' di polemica sui giornali non si tira indietro. Basta poco, sai: un'intervista in più agli attori, che invece di restare relegata alla pagina degli spettacoli si ritrova un titolo in prima: ed ecco che l'annunciato boicottaggio diventa un trucco per staccare qualche migliaio di biglietti in più al botteghino. Insomma, caro Elmo, secondo me un boicottaggio del genere è un autogol. Un po' come la storia dei libri proibiti nelle biblioteche veneziane. Ma è vero che li tolgono?

Lascia che ti racconti anche questa storia. Dunque, ti ricordi di Battisti, il terrorista? Qualche settimana fa non si parlava d'altro, il governo italiano fece fuoco e fiamme, sembrava che dovessimo interrompere i rapporti commerciali col Brasile. Poi, come succede in questi casi, non c'è più stato nulla di cui parlare: bisognava inventarsi qualcosa di nuovo. A questo punto un assessore veneziano del PdL, l'ex missino Speranzon, ha chiesto ufficialmente alle biblioteche comunali di ritirare dagli scaffali le opere degli scrittori che nel 2004 firmarono un appello per la scarcerazione di Battisti (che a quel tempo era stato arrestato in Francia). Non tutti questi scrittori escludono che Battisti possa aver commesso dei crimini, ma hanno forti dubbi sulla regolarità dei processi a cui non partecipò (l'Italia è uno dei pochi Paesi in cui si può processare qualcuno in contumacia). Che ci vuoi fare, Elmo, non c'è solo Berlusconi a nutrire dubbi sulla giustizia italiana. Ma lasciamo stare. Certo, è ben triste che proprio a Venezia qualcuno proponga una specie di Indice dei Libri Proibiti. Persino ai tempi della Controriforma, quando a Roma aprire il libro sbagliato poteva portarti al rogo, gli intellettuali più scomodi cercavano riparo dall'Inquisizione presso la Serenissima.
Ma lasciamo perdere anche il passato. Il punto è: anche se i bibliotecari toglieranno dagli scaffali i libri incriminati (tra cui quelli di Roberto Saviano), che risultato si otterrà? Certo nessun danno agli scrittori, che sui libri prestati in biblioteca non guadagnano più un centesimo. Anzi, il boicottaggio  costringerà qualche lettore in più a comprarseli in libreria. Senza tener conto, anche in questo caso, dell'effetto boomerang: gli scrittori, come puoi immaginare, sono tipi sensibili, che non vedono l'ora di sentirsi un po' perseguitati da qualcuno per scrivere ai giornali, organizzarsi, trasformare una polemica in un'altra occasione per farsi leggere - a pagamento, visto che i volumi in biblioteca non si troveranno più.  È quello che stanno facendo in questi giorni, appunto. Massimo Carlotto, uno degli scrittori incriminati (il solo aggettivo "incriminati" secondo me vale qualche centinaio di copie in più), ha replicato a Speranzon facendo notare che nel bel mezzo di tutte queste polemiche il Veneto è diventato la regione italiana con i maggiori interessi economici in Brasile. Carissimo Elmo, non so se tu Carlotto l'abbia mai letto. È un ottimo giallista, nato a Padova, che racconta il Nordest di oggi come pochi sanno fare. Se non ne avevi mai sentito parlare, adesso lo hai sentito: se avevi letto già qualche suo libro, sono abbastanza convinto che nessun assessore del tuo partito ti convincerà a smettere con questo o altri sgangherati boicottaggi.

Nel frattempo, l'assessore regionale all'istruzione Elena Donazzan (PdL anche lei, con un debole per i caduti di Salò) si è fatta viva. Non la sentivamo più da quando pensò di regalare a tutti gli studenti veneti una Bibbia a spese dei contribuenti. Adesso invece ha chiesto ai presidi di rimuovere dalle biblioteche scolastiche i libri degli autori maledetti - sì, sempre quelli dell'appello pro-Battisti. Così magari rimarrà più spazio per i libri che fa stampare lei, pieni di strafalcioni e scopiazzati da wikipedia. O i cd "europeisti" distribuiti a spese della Regione e contenenti inni neofascisti.

Insomma, caro Elmo, cosa stanno diventando i tuoi dirigenti? Da quand'è che hanno cominciato a pretendere di spiegarti quale film puoi vedere e quali no, quali libri puoi leggere e quali no? Una volta non era così, una volta i leghisti erano i ribelli, i berlusconiani si riempivano la bocca della parola libertà. Ma quella era la prima generazione. Adesso tocca alla generazione dei maestrini, dei censori occhialuti, e non si può dire che siano altrettanto simpatici. E la prossima? I bambini che nascono oggi, e magari cresceranno in una Padania federale con le bandiere verdi, e i libri giusti sugli scaffali e i film giusti in tv, non sentiranno anche loro il bisogno di ribellarsi un po'? Pensa ai bambini di Adro, col Sole delle Alpi griffato su tutti i banchi: non toglierà ai monelli la voglia di inciderla col temperino? Non c'è il rischio che poi crescendo venga loro a noia? Che vadano a sporcarsi i piedi nelle aiuole per il gusto di infangare il vessillo che quel furbacchione del sindaco ha voluto disegnare anche nello zerbino? E se scoprono che c'è una lista di libri proibiti, non faranno la corsa per procurarseli? Faccio per dire, è solo una mia teoria. http://leonardo.blogspot.com
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Elmo 2 la Vendetta

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Stavo cercando di capire che differenza c'è tra Bossi e Sarah Palin, a parte il fatto che lui non tira agli alci (ma perché non ci ha ancora pensato) (sssst che se gli viene in mente poi addio stambecchi dello Stelvio). Per il resto, a furia di parlare di fucili di qua e di pallottole di là, siamo fortunati che qui da noi finora nessuno lo ha preso davvero sul serio, no?


Speriamo bene. Grazie leghista per non tirare al cachemire è sull'Unita.it e si commenta qui. (Oppure qui).

Carissimo ELMO (Elettore Leghista Medio Operaio), come stai? È da tanto tempo che non ti scrivo. Ma alcuni fatti degli ultimi giorni, apparentemente slegati tra loro (la cimice di Bossi, il cachemire di D'Alema, la strage in Arizona) mi hanno fatto pensare a te. 

Nei prossimi giorni si parlerà molto
 di come un certo tipo di propaganda possa istigare al crimine. Prendi Tucson. Il pazzo che ha sparato nel mucchio con un'arma a ripetizione, come un pessimo cacciatore, non era poi così pazzo da non saper scegliere la sua preda. La parlamentare Gabrielle Giffords era in una “hit list”, una lista di obiettivi da abbattere (in senso figurato ovviamente), sul sito della leader conservatrice Sarah Palin, un'altra che ha il grilletto facile. Forse il suo attentatore non ha fatto che confondere senso letterale e senso figurato, come capita ai bambini e a chi è considerato incapace di intendere e volere. Ma la retorica barricadera di personaggi come la Palin può essere considerata in qualche modo responsabile? 

Almeno in Italia non abbiamo personaggi così.
 Con tutti i problemi che abbiamo già... L'unico politico ad aver parlato con una certa frequenza di fucili e pallottole, negli ultimi vent'anni, è il tuo leader. Eppure non ce ne siamo mai preoccupati troppo, anche quando parlava di migliaia di "martiri" padani e i suoi uomini portavano i cappi in parlamento. E lo sai perché? Perché in fin dei conti abbiamo fiducia in te, Elmo. Ti abbiamo dato del razzista, e forse lo sei. Ma non abbiamo mai pensato a te come un assassino. E guarda che in Italia di fanatici assassini ce ne sono stati, a destra, a sinistra e in altri luoghi non chiari. 

Ma a un terrorismo di matrice leghista no,
 non abbiamo mai voluto pensare. Del resto in vent'anni l'unica cosa che mi viene in mente è quel commando di Serenissimi che occupò il Campanile di San Marco con un trattore travestito da carro armato – in un primo momento liquidati come una banda di mona dal Senatur, che poi si impietosì e organizzò anche fiaccolate per la loro liberazione. E questo per ora sarebbe tutto – no, aspetta, c'erano anche le famose ronde padane, che quando furono lanciate sembravano a tutti (anche a me) l'anticamera dello squadrismo, ma poi sono più o meno scomparse nel nulla. 

La sensazione, caro Elmo, 
è che tu sia molto meno guerriero di come i tuoi leader amano raffigurarti. Può darsi che un certo tipo di violenza verbale non ti dispiaccia (qualche giorno fa su Radio Padana si esultava per le ferite riportate da Nichi Vendola cadendo dalle scale), ma è più un modo di sfogare la rabbia che di eccitarla. Certo, il tuo leader continua a lasciar intendere che tu mordi il freno, che non ne puoi più, che vuoi il federalismo subito o non sarai più responsabile (anzi: lui non sarà più responsabile) delle tue azioni. E tu, se il gioco delle parti lo prevede, sei anche disponibile a fare la faccia feroce. Magari a scendere su Roma, con o senza elmo di cartapesta: una cosa rapida, però, e sabato possibilmente: che domenica c'è la partita e lunedì... sveglia alle sette. 

D'altro canto, carissimo Elmo, 
negli ultimi mesi probabilmente anche tu devi aver perso il conto di quante volte Umberto Bossi ti ha chiamato alle armi, per poi chiederti subito dopo di rinserrarle nel fodero, ché il federalismo era questione di giorni, ore, minuti (anzi, non era già arrivato in settembre?) Poi d'un tratto, in mezzo a tanti proclami e controproclami, è successa una cosa. Una piccola cosa, in fondo. Qualcuno ha vandalizzato una sede della Lega, con petardi e bombolette spray. 

No, caro Elmo, non minimizzo la gravità del gesto: 
le bombe fanno male, anche quando sono bombe carta. Ma proprio mentre condanno fermamente i vandali di qualsiasi colore, mi è difficile non pensare a quante volte sui muri delle nostre città ho letto scritte inneggianti a Bossi e alla Lega: a quanti insulti rivolti a Roma, ai meridionali, ai migranti, vergati dai simpatizzanti di un partito che sui cartelloni ufficiali scriveva gli stessi slogan. E quindi Elmo cosa vuoi, chi di bomboletta spray ferisce, di bomboletta spray può anche... esser ferito. Non possono essere tutti leghisti i graffitari, nemmeno nel varesotto. 

Bossi però non l'ha presa tanto bene. 
In un primo momento addirittura ha denunciato nei petardi di Gemonio un avvertimento della “palude romana”: oscuro riferimento a poteri forti, ma così forti, che per avvertire Bossi non lesinano in bombolette spray. Quando i media hanno chiarito che i vandali andavano cercati nelle vicinanze, ha dichiarato che senz'altro erano figli di leghisti (come se a Gemonio non si potesse più essere figli di qualcun altro). Nel frattempo l'episodio scatenava l'emulazione: a Sant'Omobono Terme qualcun altro osava vandalizzare una sede leghista, stavolta addirittura con scritte in bergamasco. 

A questo punto per Bossi era fondamentale cambiare argomento.
 Il leghismo, nei sogni del suo fondatore, è sempre rimasto un movimento popolare, che attacca il palazzo del potere dal basso: fino a qualche anno fa i leghisti erano i ribelli che scrivevano sui muri, non gli imbianchini chiamati a ripulirli. Così ecco servita ai media un'altra storia: il ritrovamento di una microspia nel quartier generale della Lega. Magari è una storia vera, chissà. Certo, è buffo che l'abbia raccontata identica nel '93. Ma quel che importava a quel punto era spostare l'attenzione da Gemonio o Sant'Omobono, allontanando soprattutto l'idea che i leghisti siano contestati dal basso, persino in dialetto: no, chi ce l'ha coi leghisti dev'essere senz'altro affiliato a un potere forte, qualcuno che ha i mezzi per spiare e intercettare. 

In casi come questi il tuo Bossi
 non fa che imitare, in modo intuitivo e un po' meccanico (ma non meno efficace), la strategia berlusconiana che punta alla costruzione del nemico. Vent'anni fa era il comunista, ma poi, man mano che il tempo passava e il Muro di Berlino si stemperava nei ricordi, è diventato sempre di più il “comunista in cachemire” (che D'Alema, ahinoi, non rinuncia a impersonare). In questo consiste il capolavoro di Berlusconi e Bossi: nell'essersi costituiti difensori dei ceti popolari contro un nemico di classe, il ceto intellettuale invidioso e improduttivo, quei “radical chic” che sono l'ossessione di qualsiasi fondo del Giornale o della Padania, i sofisticati antipatici con la puzza sotto il naso che nelle fiction mediaset tormentano l'esistenza della gente de core, umile ma perbene. Non importa quante elezioni abbiano perso, sono ancora lì: nelle università occupate, nelle scuole, nella magistratura, in Parlamento. Sono loro che intralciano la realizzazione del federalismo, o della devolution, o di qualsiasi cosa Bossi ti stia promettendo in quel momento. Perché non si levano di mezzo? 

A questo punto non posso che ringraziarti
, carissimo Elmo, perché dopo tanti anni di tiro (metaforico) al radicalscic, non ti è ancora venuto in mente di tirare sul serio al primo fighetto in cachemire che ti passa davanti. Sul serio, al posto tuo non so se sarei riuscito a rimanere così freddo, mentre ogni giorno qualcuno mi spiega chi odiare e perché. Davvero, sei molto più tranquillo di come ti dipingono: e più furbo, anche. Ma non bisogna dirlo in giro: a troppi tuoi amici e nemici fa ancora comodo immaginarti sotto un elmo e con lo spadone sguainato. http://leonardo.blogspot.com
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I was wr wr wr wr wr

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"Il fatto è che a volte anche tu ti sbagli, come tutti gli esseri umani".
"Non è vero".
"Massì, ogni tanto scrivi delle gran cazzate"
"Non è vero".
"Ti si vuol bene lo stesso...".
"No".
"Ma le scrivi".
"Non le scrivo".
"Succede a tutti".
"Invece no".
"Il fatto è che proprio non vuoi ammetterlo".
"Non è vero".
"Ma sì, non lo ammetti mai".
"Non è vero, io lo ammetto sempre".
"Non ci credo che lo ammetti".
"E invece guardami, eh, adesso lo ammetto. Pronta?"


Veneto, scusami, ho scritto una stronzata (Teoria  #49) è sull'Unita.it, e si commenta là. Un piccolo passo per l'umanità, un enorme passo per un blogger cispadano.

Cosa succede quando un blog scrive una stronzata? Una, per intenderci, come quella che ho scritto la settimana scorsa? Cosa bisogna fare? Cancellare tutto? Modificare? Far finta di niente, cambiare argomento? Dopo dieci anni che scrivo in rete (dieci anni in cui di stronzate devo averne scritte davvero tante) sono giunto a una conclusione: la cosa migliore è lasciare tutto com'è e chiedere scusa. E fare in modo che le scuse abbiano lo stesso risalto delle stronzate che le hanno causate. Eccomi qui, dunque. Siccome questo è un blog delle teorie, oggi ci porremo il seguente problema: perché ogni tanto su un blog capita di scrivere stronzate anche enormi? Avete teorie da suggerire? Io ne ho una.

Facciamo un passo indietro. Dieci giorni fa, come tutti i venerdì, ero disperatamente in cerca di uno spunto interessante per il pezzo. A un certo punto mi trovo davanti l'editoriale di un giornalista veneto, Alessandro Zuin, che domandandosi come mai gli invasi anti-piena non siano stati costruiti "neppure negli anni grassi, quando i finanziamenti correvano in scioltezza", si risponde che certi lavori pubblici "costano molto ma non danno un corrispondente ritorno in termini di popolarità al personale politico che li realizza. Al contrario, procurano fastidi e complicazioni". Per contro "al politico di turno assicurano un riscontro migliore gli interventi fatti eseguire a riparazione dei danni, dopo il solito disastro ambientale". Insomma, il fatto che i politici preferiscano intervenire sulle emergenze piuttosto che fare prevenzione sarebbe la conseguenza della democrazia come la intendiamo negli ultimi anni (una campagna elettorale permanente).


Si trattava davvero di un'idea interessante, e inquietante, anche: peccato che l'avesse già ben scritta Zuin. Io invece dovevo produrre un contenuto originale. Così mi venne in mente di scrivere una favoletta alla rovescia, dove la saggia formichina che in estate ha alzato gli argini perde le elezioni, mentre la pigra cicala lascia che l'acqua scorra, poi si lamenta e ottiene 300 milioni da Roma. Visto che si parlava di alluvioni, mi è sembrato appropriato far passare un fiume in mezzo. Dopo i primi tentativi trovai che la storiella avrebbe preso tutto un altro tono se fosse stata narrata dal fiume stesso. Et voilàil pezzo era pronto. E non mi sembrava nemmeno una stronzata. Mi sbagliavo, mi dispiace, chiedo scusa.

Eppure lo spunto era buono. In che modo sono riuscito a trasformarlo in una stronzata? Beh, è molto semplice. Ho raccontato di un fiume che divide due regioni. Se quella delle cicale astute e piagnone è il Veneto, l'altra non può essere che l'Emilia-Romagna - che è poi quella in cui vivo io, che tra l'altro negli stessi giorni aveva i fiumi gonfi a causa di precipitazioni pure assai inferiori. In realtà la rete idrogeologica emiliana versa in condizioni altrettanto, se non più critiche di quella del Veneto; se i nostri argini hanno tenuto è forse semplicemente perché abbiamo avuto fortuna. Altrimenti in mezzo al fango ci sarei finito io, mentre magari un blogger veneto avrebbe scritto una sapida favoletta sulle mie disgrazie. Il fatto è che tra queste due regioni, più che un fiume, corre un confine ideologico - sempre più sfumato a dire il vero, ma ancora vivissimo nella fantasia di tanti lettori che continuano a pensare a un Emilia "rossa" e a un Veneto prima bianco e adesso "verde".

La favoletta arriva sull'homepage dell'Unità lunedì scorso, in un momento particolare. Le dimensioni del disastro ormai sono chiare, eppure molti lettori hanno la sensazione che l'alluvione non riesca a 'forare'. Ed è vero che Tv e giornali ne parlano poco. Altri argomenti (il caso Ruby, la crisi di governo, Benigni e Saviano in tv) tengono banco. E anche su internet, uno dei pochi articoli che parli dell'alluvione... è una stronzata. E l'ho scritta io. Di solito sarebbe passata inosservata, sommersa da centinaia di articoli in cui si esprimeva la solidarietà con la popolazione colpita... ma stavolta no. Devo dire che chi si lamenta della scarsa solidarietà ricevuta la settimana scorsa non ha tutti i torti. Di solito non sono io a scrivere cose del genere; di solito quando arrivo io la solidarietà ha già riempito lenzuolate di quotidiani, in mezzo alle quali (di solito) un po' di cinismo non guasta. Stavolta invece intorno al mio cinismo non c'era quasi niente. Non me lo aspettavo. Ma è successo.

A questo punto è scattato un fenomeno curioso
. Alcuni blog invece di produrre o segnalare contenuti di qualità sull'argomento; invece di individuare i responsabili dell'incuria, se c'è stata, o dimostrare che non c'è stata... hanno iniziato a prendermi di mira come esempio di giornalista anti-veneto, che fa propaganda anti-lega, anti-nord, anti-gente-che-si-rimbocca-le-maniche. Nei commenti al mio articolo è cominciata una furibonda polemica contro l'Unità e il PD che ce l'ha coi veneti. Sì, perché di colpo un autore di blog semisconosciuto (io) è diventato addirittura, nei deliri di alcuni, la voce del PD, o di un'intera civiltà di giornalisti radical-chic che scrivono empie favolette da saputelli mentre là fuori c'è chi rimedia ai disastri con pale e carriole.

In realtà chi scriveva roba del genere
, più che la pala e la carriola, stava usando una tastiera esattamente come me. Se io non avevo saputo produrre niente di più interessante di una cinica favoletta, loro stavano semplicemente cambiando argomento: invece di parlare di gestione del territorio, di prevenzione contro emergenza, prendiamocela contro i soliti radicalchic. Ma non sono i radicalchic a dirottare i fondi per la prevenzione delle alluvioni... Il problema è che, per quanto deliranti, molti avevano ragione. Avevo davvero scritto una stronzata. Forse non volevo davvero scrivere una favoletta sulle formichine emiliane e sulle cicale venete, però il pezzo si poteva benissimo leggere in quel senso. Era suscettibile di un'interpretazione del genere. Poi, certo, io parlo a mio nome: non si può prendere una mia stronzata e fingere che rappresenti "la sinistra" o addirittura il PD (partito che a volte ho votato e a volte no). Però scrivere su un giornale come l'Unità comporta delle responsabilità. Anche se non diventerò mai portavoce del PD, devo essere più attento a quel che scrivo qui. Proprio perché c'è gente che travisa volentieri.

E anche perché in fondo me lo aspettavo
. Rileggendomi, prima di pubblicare, mi ero perfettamente reso conto che il pezzo poteva essere letto come uno sfogo da campanile: però l'ho pubblicato lo stesso. Perché? Devo aver pensato (ed è qui che ho commesso l'autentica, grande stronzata) che un po' di polemica non avrebbe guastato. Avrebbe aggiunto un po' di pepe al dibattito, come si dice. Sapevo benissimo che il Veneto non è solo Lega (è la regione del volontariato, ad esempio). Sapevo anche che di cicale sprovvedute l'Emilia è piena. Ma ho pubblicato lo stesso. Se dà fastidio a qualcuno tanto meglio, ho pensato.

Il guaio è che non mi sbagliavo.
 Il pezzo è stato letto da molte più persone. Il mio blog ha raggiunto lettori che prima non lo conoscevano, e che adesso magari lo maledicono, però chissà, ora sanno che c'è e prima o poi ci torneranno. Ed eccoci arrivati alla teoria: perché sui blog si scrivono stronzate? Perché funzionano. Alla gente piace leggerle. Voi lo avevate notato il pezzo di Zuin? Era breve, pacato, condivisibile, quasi nessuno se l'è filato. La favoletta invece ve la siete letta. Per forza, era una stronzata. Dovrei smettere di scriverne, lo so. Ma non è facile. 
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Io Fiume

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Oggi la rubrica l'ha scritta il Grande Padre. Ciao papà, sorridi!
No, eh?
Vabbe'. Il fiume dei Fessi e dei Furbi si legge sull'Unita.it, ed è possibile commentarlo qui.
(Ndb: nel pezzo si parla di due regioni. Mentre una è facilmente riconoscibile nel Veneto di Zaia, l'altra vorrebbe essere l'Emilia, ma appunto, vorrebbe: ce ne passa ancora di acqua, sotto e sopra i ponti).

Buongiorno, io sono un Fiume. Sono al mondo da molto prima di voi umani, e ci sarò quando ve ne sarete andati. Questo non significa che vi disprezzi. Anzi devo dire che gli ultimi millenni sono stati molto eccitanti, grazie a voi. Prima la mia vita scorreva piuttosto placida: giusto ogni tanto un terremoto, una glaciazione o un disgelo, ma per spostare il mio letto anche solo di pochi metri potevo metterci un'era geologica. Poi all'improvviso siete spuntati voi, così veloci che non ho nemmeno capito da dove siete scesi (dagli alberi?) Mi avete imbrigliato, canalizzato, deviato di qua, interrato di là, come degli ossessi. È stato divertente (ma un bel gioco dura poco).

Col tempo forse ho capito il vostro problema. La mia teoria è questa: voi non riuscite quasi mai a guardare più in là della vostra vita, che è molto breve. Questa pianura, dove stagnavo tranquillo, non era stata creata per voi. Dove io avevo messo paludi e lagune, voi avete voluto mettere campi, pascoli, città. Per farvi spazio mi avete combattuto per generazioni. Mi sta bene. Purché capiate che non potrete mai vincere. Io sono il Fiume, ci sarò sempre, e voi dovrete sempre lottare contro di me. Il giorno che non avrete più le forze, ve ne andrete, e tornerò alle mie paludi. Già adesso, basta che piova due o tre giorni, e cosa vi trovate in cantina? Sono io. Sto tornando.

Vorrei raccontarvi la storia di due regioni. Perché abbiate deciso di chiamarle con due nomi diversi non lo so, sono le vostre manie: nomi, confini, bandiere... Io Fiume le solco entrambe, e faccio fatica a distinguerle, da tante cose hanno in comune. I loro abitanti si somigliano, si sono arricchiti tardi e in fretta. Hanno gettato per terra tanto asfalto, tanto cemento, probabilmente troppo. Doveva lastricare la via verso il successo, ma ha reso di fatto più complicato l'assorbimento delle acque, e adesso bastano tre giorni di pioggia perché io rigurgiti fuori dai tombini.

Quello che distingue davvero le due regioni è, come dite voi, la "politica". In una delle due governano i... non so come si chiamino, sono un Fiume e non leggo molti giornali, li chiamerò i Fessi. A un certo punto persino i Fessi hanno capito che le inondazioni in autunno e in primavera non erano più emergenze, ma un problema cronico. E hanno pensato di risolverlo alzando gli argini, scavando nuovi canali, costruendo casse di espansione e allargando quelle esistenti. Per fare tutto questo servivano molti soldi: li hanno raccolti, economizzando su altre voci di bilancio; domandando di accedere a fondi nazionali o europei per la conservazione del territorio; indebitandosi. Magari hanno addirittura alzato le aliquote delle imposte regionali. Lo hanno deciso in un giorno di sole; non una nuvola si affacciava alle finestre della giunta regionale. Non è stata una scelta popolare. Ma gli amministratori guardavano al medio-lungo termine, pensavano alle inondazioni che avrebbero prevenuto, ai soldi che avrebbero risparmiato. Perché sono Fessi.

Nell'altra regione da qualche anno governano i Furbi. Anche loro hanno capito che l'acqua in cantina non era un ospite occasionale. Non sono mica Furbi per niente. E cosa hanno fatto? Un bel niente. Non hanno alzato un argine, ché son soldi. Non hanno scavato un solo fosso in più di quelli scavati dai loro nonni più previdenti. In estate hanno annunciato che loro le aliquote non le toccavano, tra gli applausi dei loro elettori. Questi son già arrabbiati dei troppi soldi che vanno alla capitale, figurati se potevi chieder loro di pensare alla pioggia nei giorni di sole.

È venuto settembre, e poi ottobre, e con ottobre le prime piogge serie. Dopo qualche giorno, neanche una settimana, io mi sono presentato puntuale nelle cantine, e ho fatto un miliardino di danni. I Furbi hanno approfittato per chiedere soldi alla capitale, e lamentarsi dei centralisti ladroni. Siccome in realtà anche nella capitale governano i Furbi, qualcosina senz'altro arriverà. Poi sì, tanti soldi bisognerà spenderli, e i contribuenti li pagheranno. Nel frattempo i Furbi si faranno fotografare mentre spalano il fango nelle cantine, e ci avranno guadagnato una bella foto per il manifesto elettorale. Già, perché tra un po' ci saranno le elezioni, e sapete chi le vincerà? I Furbi. Con le loro mani sporche di fango, il simbolo degli Uomini del Fare.

Anche nell'altra regione è piovuto. Ma gli argini erano più alti, le casse di espansione pronte ad accogliermi; così ho esondato appena un po', e il giorno dopo non ero neanche in prima pagina sui quotidiani locali. Tra un po' ci saranno le elezioni anche qui. E i Fessi le perderanno. Perché hanno alzato le tasse, e non hanno nemmeno un manifesto in cui spalano fango in una cantina. Insomma perché sono dei Fessi, e meritano di perdere.

Il futuro, infatti, è dei Furbi. Credete a me, che sono un Fiume, ho già visto crepare i dinosauri. I furbi erediteranno il mondo - per i prossimi cinquant'anni, diciamo. Il tempo di estinguervi. Poi torno io. Spazzo via il vostro cemento e non ci penso più. http://leonardo.blogspot.com
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La Padania è un'espressione geografica

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Neologismi da salvare (2): Padania

Suona incredibile, pure è così: sul mio slabbrato Zanichelli “Padania” non c'è, quindi dovrebbe trattarsi di un neologismo. La cosa è abbastanza strana. Io ricordo di averne sentito parlare addirittura a lezione di filologia. Se non mi sbaglio (prestai il manuale e gli appunti a una ragazza, me sciagurato, che non me li ritornò) con “padanìa” si indicava la regione linguistica delimitata a sud dalla linea Rimini-La Spezia. Addirittura negli anni Ottanta è attestato il termine tecnico “padanese”, traduzione di “padanian”. Nel frattempo Gianni Brera scriveva “padania” già da vent'anni. A quel tempo la Gazzetta dello Sport era un laboratorio linguistico: allo stesso Brera dobbiamo “centrocampista”, “contropiede”, “pretattica”, “melina”. Questi termini però ebbero fortuna perché i colleghi di Brera ne avevano effettivo bisogno. “Padania” rimase un brerismo, forse perché non era un termine tecnico.

Insomma, l'idea è che fino a metà Novanta “Padania” (anzi, Padanìa) fosse esclusivo appannaggio di filologi occhialuti e gaddiani della domenica sportiva. Ma ne siamo davvero così sicuri? Su internet la discussione divampa (come qualsiasi discussione). “Padania” è una parola tradizionale o una novità dell'altro ieri, un coccio celtico made in China? Se trovate scritto “padania” su un documento antecedente al 1995, potete segnalarlo ai curatori di questo sito, li farete felici:

In questa pagina saranno segnalati tutti i testi siano essi libri, riviste, quotidiani o qualsiasi altro genere di pubblicazione che riportino in qualche modo il nome Padania . Si vuol così dimostrare che il termine era già in uso e non costituisce quindi un frutto del recente periodo politico, ma al contrario la politica stessa ha ricavato il termine dal territorio che ne porta il nome, dal territorio dove il termine era in uso già da molto, molto tempo.

Mah. In uso o no, senz'altro fino a metà '90 “Padania” non era un termine del lessico politico. Addirittura i leghisti per più di dieci anni non sapevano di essere gli strenui difensori di una cosa che iniziava con la P. Nei primi tempi Bossi parlava di una “Repubblica del Nord” che faceva un po' guerra di secessione; nei momenti più lirici (ne ha, ne ha, per quanto di atteggi a scarpe-grosse-cervello-fino ha sempre avuto gli slanci del boccalone da bar) si azzardava a sognare un'“Eridania trapuntata di stelle”. Purtroppo l'Eridano è una delle costellazioni meno interessanti dell'emisfero boreale, e poi c'è il problema del marchio registrato dallo zuccherificio. E così era abbastanza inevitabile che un bel giorno nascesse la Padania. Con l'accento sulla seconda a, non si sa bene perché. Probabilmente per evitare anche solo la rima con Albania e Romania.

Come inventare una nazione con una parola, prendete nota. Semplice e geniale, un uovo di Colombo. Padani lo siamo sempre stati, ma finché abitavamo in Valpadana la cosa era abbastanza irrilevante. Ora invece popoliamo la Padania: vuoi mettere? La parola “Valpadana” evocava un ambiente fisico delimitato e circoscritto. Togli la connotazione fisica, aggiungi un suffisso semplice e maestoso (-ia) e hai qualcosa di più. Niente più prati verdi e montagne, ma una patria. Che non esiste, secondo Gianfranco Fini. E neanche secondo me. Però intanto la parola c'è, e le parole vanno maneggiate con cura.

Lo slogan “La Padania non esiste”, per esempio, mi sembra un caso da manuale di “Non pensate all'elefante”: ti costringe a ragionare su quel che nega. In fondo siamo tutti cresciuti in quel famoso ambiente sessantottardo dove purtroppo tutti questi sei politici non li ha visti nessuno, ma in compenso abbiamo imparato a mettere in discussione qualsiasi autorità, qualsiasi imposizione, e soprattutto qualsiasi negazione. Così la mia prima reazione istintiva alla frase “X non esiste” è: come fai a dirlo? Chi sei per dirlo? Se x non esiste, perché ha un nome? Chi glielo ha dato evidentemente pensava che esistesse. Perché devo fidarmi di te e non di lui? E perché tu ci tieni tanto a dire che non esiste? È una rimozione, e se abbiamo leggiucchiato Freud sappiamo cosa c'è dietro le rimozioni. Insomma, Gianfranco, non è per caso che vuoi negare la padanità che è in te? Come Hitler che forse, chissà, aveva zii di quarto grado ebrei? Eccetera eccetera.

La Padania è “un'invenzione”, dite. Un po' come qualsiasi altra cosa. l'Impero Romano, la Repubblica di San Marino, qualsiasi entità statale ha dovuto essere inventata a un certo punto. Anche la parola “Italia”, ricorderete, è stata confinata un bel po' di tempo nel limbo delle “espressioni geografiche”: e continuava a suonare stravagante anche negli anni più drammatici del Risorgimento. A credere nella sua consistenza di patria e nazione era una minoranza che non doveva attestarsi molto lontano dal 10% che hanno i leghisti oggi in Parlamento. Le nazioni sono comunque concetti astratti, e qualsiasi concetto astratto esiste una volta nominato. Insomma è un incantesimo, la Padania: essa esiste un po' di più ogni volta che la si nomina, e non ha nessuna importanza che la frase sia negativa. Ogni volta che dici “La Padania non esiste”, i suoi confini diventano più nitidi.

Quelli che dicono “X non esiste”, di solito sono i cattivi. In Turchia sono quelli che negano il Kurdistan. In Palestina, quelli che fingono di non vedere i palestinesi. In fondo se questa è tutta la cattiveria di cui oggi è capace Gianfranco Fini, se è tutto qui il suo residuale nazionalfascismo, verrebbe quasi voglia di abbuonarglielo: ma non si può, non conviene. Padania è una parola potenzialmente pericolosa, e l'ultima cosa da fare con le parole pericolose è proibirle. Occorre disinnescarle. Facciamo che esiste: che è un comodo sinonimo del più tradizionale Valpadana; che è la macroregione in cui abitano i padani, che saremmo sempre noi, dotati di un'identità linguistica più che storica, che comunque non cessiamo per questo di essere italiani come lo sono i meridionali, gli isolani, e... e quelli che stanno in mezzo. A proposito, forse occorrerebbe inventare un nome anche per loro. Già, ma non è mica facile. È in questi momenti che gente come Brera ti manca davvero.
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Il ritorno di Elmo

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Io, i leghisti, un po' li invidio. No, non è vero.


Li invidio tantissimo. Ho una teoria #40 è solo sull'Unita.it! E si commenta lì!


Carissimo ELMO (Elettore Leghista Medio Operaio),
ti scrivo di nuovo in questi giorni di sagre e festival, di comizi e marce sul Po, in cui mi sono reso conto di invidiarti anche più del solito. Io, come sai, milito in un partito che perde da quando è nato, anzi, da un po’ prima; un partito che non riesce a guadagnare consensi neanche quando l’avversario ne perde. Il tuo invece ha vinto le ultime elezioni e rivincerà le prossime; vincerebbe anche se votassimo oggi. Certo, malgrado tutte queste vittorie non vale ancora la metà del mio in punti percentuali – ma i numeri non hanno poi così importanza. L’importante è quell’aria di vittoria che ieri si sentiva forte e chiara a Venezia, e a Torino no.

Carissimo Elmo, come tu sai il passatempo preferito di noi del PD è il tiro al segretario. Ogni due anni o giù di lì ne eleggiamo uno nuovo. Questi fa giusto in tempo a sconfessare la linea del precedente e a barcamenarsi un po’ tra le non-correnti, le quali aspettano soltanto il momento propizio per buttarlo giù. Tutto questo teatrino, voi della Lega, non sapete nemmeno cos’è. Voi avete un capo, e quel che dice il capo non si discute. Sul serio, dev’esser bello.

Ma ci vuole carisma, e quello di Bossi è indiscutibile. Chiunque, al suo posto, probabilmente sarebbe già schizzato via. Pensa soltanto, carissimo Elmo, a come ha trascorso l’estate. L’ha passata a ventilare crisi di governo, a chiedere elezioni, a minacciare invasioni: nemmeno cinque giorni fa parlava di portare dieci milioni di persone a Roma! Poi improvvisamente ha cambiato idea. Sembrava accontentarsi delle dimissioni di Fini dalla presidenza della Camera – è salito con Berlusconi al Quirinale per chiedere la sua testa a Napolitano. Napolitano però ha spiegato che non si può. A questo punto cosa avrebbe dovuto succedere? Crisi, elezioni, invasioni? No, niente. Bossi ha alzato le spalle e vi ha detto più o meno: pazienza. Le elezioni non si fanno, Fini non si dimette, il governo va avanti.

A questo punto, caro Elmo, qualsiasi leader che non si chiamasse Bossi, di cognome (e Umberto di nome) avrebbe semplicemente perso la faccia. Bossi no: lui può dire e fare tutto e il contrario di tutto, sicuro che voi lo seguirete sempre: perché sa che quel che importa sono i risultati, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti, no? No?

Da quel che ho capito del discorso di ieri, il federalismo è arrivato. Questione di ore, minuti, secondi. Non è chiaro di che federalismo si tratti, probabilmente di quello fiscale. Realizzato con che soldi? Non si sa, vedremo. Certo però che è strano. Fino a una settimana fa, per ottenere il federalismo, bisognava aprire una crisi di governo, cacciare il centralista Fini, lasciare che l’asse del centrodestra si facesse spostare dal vento del nord. E poi, improvvisamente, non ce n’è più bisogno: il federalismo è già tra noi.

E questa è un’altra cosa che v’invidio, caro Elmo. I nostri leader non sanno mai cosa prometterci. C’è sempre una crisi che ci costringe a essere realisti, c’è sempre qualche sacrificio da fare, qualche cinghia da tirare. Voi leghisti, invece, qualsiasi cosa desiderate, la ottenete. Volevate il federalismo – eccolo qua. E non è tutto, perché un altro pregio di Bossi è che non smette mai di alzare l’asticella. A Venezia ne ha proposto un’altra delle sue: decentrare le sedi dei ministeri. In apparenza potrebbe sembrare scomodo: ministri e sottosegretari sarebbero costretti a fare la spola dalle sedi decentrate a Roma. Un bel traffico di auto blu… ma non importa. Bossi è uno che bada al sodo e non fa tanti giri di parole. I Ministeri sono una fonte enorme di posti di lavoro e di soldi”, ha detto. “Perché i nostri giovani non vi possono accedere?”

Ora, se un qualsiasi rappresentante politico del mio partito dicesse una cosa del genere, sarebbe sommerso di pernacchie. I suoi avversari interni non tarderebbero cinque minuti a replicare. Che razza di federalista è, direbbero, uno che concepisce i ministeri come vacche da mungere? Che fine ha fatto l’orgoglio del lavoratore padano, che irride il posto fisso e crede nella libera impresa? Siamo davvero messi così male da chiedere a Roma una quota di posti ministeriali? Vogliamo passare da Roma Ladrona a Milano e Torino ladruncole, il tutto mentre continuiamo a tagliare i fondi per gli enti locali? Ma poi, chi dovrebbe pagare per tutti questi nuovi uffici, per tutte le assunzioni dei “nostri giovani”? Tutto questo, a Bossi, nessuno lo dice. Lui può veramente somministrarvi qualsiasi scemenza. “In Inghilterra è una battaglia che hanno fatto da tempo: non c’è più un ministero a Londra”. In realtà, malgrado qualche ufficio sia stato spostato, i ministri di Sua Maestà la Regina hanno tutti una sede nella capitale – persino dopo la devolution, a Londra continua a esserci uno “Scotland Office”, un “Wales Office”, un “Northern Ireland Office”. Prova a immaginare, carissimo Elmo, un bel “Ministero della Lombardia” affacciato sul Tevere… http://leonardo.blogspot.com
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Siam pronti alla che?

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No, un'altra polemica sull'Inno no...
E invece sì. Cambiamo l'inno, sull'Unità.it (si commenta qui).

C'è un antico inno, nato nell'Italia settentrionale, che glorifica la vittoria della Lega Lombarda. C'è un Presidente di regione a cui non piace, e che ha chiesto di sostituirlo con un coro di ebrei sconfitti ed esiliati. A raccontarla così può sembrare una barzelletta, e in effetti lo è. Il coro degli esuli ebrei è, ovviamente, il Va' Pensiero; il canto che glorifica la Lega Lombarda è Fratelli d'Italia (scritto e musicato da due genovesi), che nella quarta strofa cita espressamente Legnano, il luogo della vittoria dei padani su Federico Barbarossa. Il Presidente a cui non piace è Zaia, Lega Nord. Proprio quel partito che di Legnano ha fatto una religione. Umberto Bossi ha persino fatto una comparsata nel kolossal di Martinelli che celebra Legnano: quel “Barbarossa” che è costato dodici milioni (un milione e seicentomila pubblici) e ne ha incassati la metà.

E insomma, è successo che durante l'inaugurazione di una scuola elementare Zaia abbia chiesto di sostituire l'inno nazionale col Va' Pensiero. La banda lo avrebbe poi suonato in seguito, mentre il ministro stava già perlustrando i locali. È una notizia? Nel momento in cui sto scrivendo campeggia sull'homepage dei principali quotidiani italiani, quindi sì, è una notizia. Anche se per la verità non ci dice molto di nuovo. L'insofferenza dei leghisti per Mameli/Novaro è cosa nota. E poi a Bagdad c'è una rapina-attentato, il Belgio è sull'orlo della secessione, Berlusconi è in Libia... ma via, perfino la cronaca di Ghana-Serbia sembra più interessante dell'ennesima polemica sull'Inno. Eppure vedrete che nei prossimi giorni se ne riparlerà.

Perché siamo in estate, ormai, e la Stagione delle Sparate Leghiste è cominciata. Come quella di caccia, ogni anno si allarga un po'. L'anno scorso fu a luglio inoltrato che si cominciò a parlare seriamente di corsi di dialetto nelle scuole. Poi ci fu la sparata sulle bandiere regionali (venti drappi anonimi e quasi tutti bruttini che avrebbero dovuto sovrapporsi al tricolore) e, naturalmente, quella sull'Inno. Polemiche trite senza nessun contatto con la realtà, buone giusto per ispirare due chiacchiere sotto l'ombrellone, magari per vendere qualche copia della Padania in più al Forte o a Milano Marittima. Quest'anno abbiamo cominciato prima. Forse per recuperare quel brutto colpo all'immagine che fu la paventata soppressione della provincia di Vercelli; forse perché cominciavano i Mondiali e l'occasione era troppo ghiotta... e in effetti a dare il la è stato Calderoli, con un'innovativa proposta per sanare il debito pubblico: tagliare i premi ai calciatori. Una sparata perfetta: il massimo di visibilità col minimo di conseguenze pratiche. Ora si riparte con la polemica con l'Inno, ormai ben più trita dell'Inno stesso.

È difficile ignorare le sparate leghiste estive. In realtà molti ci guadagnano qualcosa. I giornalisti ci rimediano qualche titolo buffo; gli alleati dei leghisti possono approfittarne per rimarcare le proprie differenze e mostrarsi difensori dei simboli minacciati: giù le mani dal tricolore / dall'inno / ecc. (vedi le puntuali dichiarazioni di La Russa). E i leghisti intanto fanno parlare di sé, disotterrando quell'anima infantile e avventurosa che non si stanca di giocare coi simboli, e in trent'anni ha inventato bandiere, confini, religioni (i riti celtici, i pellegrinaggi alla sorgente del Po, ecc), perfino nazionali di calcio. È un'anima che durante il resto dell'anno passa in secondo piano: tra autunno e primavera i leghisti ci tengono a mostrare che sono gente coi piedi (grossi) per terra, con soluzioni concrete a problemi veri. Dopo tanti anni però i problemi veri restano ancora lì, più concreti che mai: Tremonti, il ministro del PdL più vicino alla Lega, continua a tagliare risorse agli enti locali; e intanto il federalismo fiscale continua a restare sulla carta. Non resta che rimettere gli elmi di plastica, rifare una marcia sul Po, organizzare un dibattito sull'importanza del dialetto, magari finanziare un'altra fiction su qualche oscuro federalista medievale o celtico. La stampa seguirà, come segue chiunque le spari grosse: arte di cui Bossi è indiscusso maestro.

Criticare i leghisti nel merito significa fare il loro gioco. Per di più in questo caso si rischia di passare per avvocati di un inno che, soprattutto per quanto riguarda il testo, lascia molto a desiderare. Ma se le sparate leghiste sono un'operazione che coinvolge soltanto l'immaginario degli elettori, l'unica tattica possibile è batterli in fantasia. Non abbiamo anche noi un miglior inno da proporre? E se proprio siamo affezionati a Mameli, non potremmo almeno evitare quegli arcani riferimenti ai misteriosi Scipio e Vittoria, coi loro elmi e le loro chiome, quell'equivoco “stringiamci a coorte” (con due “o”: cambia tutto se ne togli una) e quel “siam pronti alla morte” che ormai è roba da fanatici jihadisti? L'anno scorso proponevo una soluzione semplice ed economica: tagliamo una strofa, partiamo dalla seconda. Forse è meno cantabile, ma è molto più attuale, ed è la migliore risposta che si possa dare alle sparate leghiste. 
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi
Raccolgaci un'Unica
Bandiera una Speme
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò

E se avanza un po' di tempo si può anche indugiare fino alla quarta strofa, per il gusto di cantare che “dall'Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano”. Dovunque, capito?
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Der Zauberlehrling

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Ci sto riflettendo seriamente: e se Fini uscisse davvero? E se qualcuno lo seguisse? Non succederà, ma nel caso. Non si meriterebbe la mia simpatia?
In fondo cosa vuoi, i tempi sono quel che sono. È vero, una volta ha detto che Mussolini era il più grande statista del Novecento, ma era giovane, da giovani, si sa... No, aveva già passato i 40. Ma in fondo, in senso neutro, Mussolini è stato davvero un grande statista, ha cambiato l'Italia e blablablà, l'Agro Pontino, la battaglia del grano, sono state cose comunque importanti, vuoi mettere con... con De Mita? Tra Mussolini e De Mita, chi è stato lo statista più grande? Ecco vedi? In un certo senso Fini aveva rrrrrrr.
E poi basta passato. L'importante è quello che vuole oggi, per esempio far votare gli stranieri. Quelli che non ha fatto annegare con la Bossi-Fini. Buffo, così quelli che sopravviveranno voteranno per lui. In un certo senso fila: only the strong will survive. Sì, lo so, è un'altra cazzata, il darwinismo sociale. Ma almeno assomiglia al darwinismo vero. Bisogna essere pragmatici.
Così magari nascerà una destra seria e moderna – che in questo momento è in Parlamento mescolata alla destra poco seria e poco moderna. Sì. Vota le stesse leggi. Il legittimo impedimento? Votato. Lo scudo fiscale? Votato. Nuove centrali nucleari? Votate. Ronde? Votate. Insomma, per ora a parte le parole la nuova destra di Fini è indistinguibile da quell'altra. Ma magari, se tutti la incoraggiamo, nascerà, crescerà, cambierà idea... Cioè, alla fine anche Galeazzo Ciano è un martire antifascista, no? Ah no? Boh, credevo. Beh, ma discutiamone. Una lapide se la meriterebbe, un cippo da qualche parte, io credo che i tempi sian maturi.
E poi insomma, non è da oggi che Fini muove critiche al Presidente, con un'indipendenza di giudizio e un coraggio di cui pochi sono capaci in Italia. Per esempio due anni fa disse in tv che era un po' basso di statura.

Ci sto riflettendo seriamente: e se Bossi uscisse davvero? E se volesse mandare all'aria il governo? Difficile, ma se succedesse? Non si meriterebbe un po' della mia simpatia?
In fondo cosa vuoi, i tempi sono questi. Recessione, involuzione, siamo tutti un po' più poveri e attaccati alle nostre povere cose, le nostre povere, com'è che le chiamano adesso? “tradizioni”. “Identità”. Va bene, sì, perlopiù son corna di plastica e spillette made in Romania. E film in costume anche loro made in Romania. Però l'intuizione è buona, bisogna dirlo, la gente riscopre l'appartenenza a una comunità. Anche quelle sparate, trecentomila fucili caldi... uno spaccone da bar, quel Bossi, sì, ma non facevano la stessa cosa i capi partigiani? fingevano di avere i fucili per ottenere qualcosa... non sto veramente paragonando Bossi a un partigiano, ma la situazione presenta qualche analogia... e poi almeno i leghisti parlano al territorio, ne capiscono i problemi. Poi tagliano i fondi agli enti locali, però almeno loro parlano. Anche in dialetto, che è divertente.
E poi insomma, non è da oggi che Bossi muove critiche al Presidente, con un'indipendenza di giudizio e un coraggio di cui pochi sono capaci in Italia. Per esempio quindici anni fa diceva che era un mafioso massone.

Ci sto riflettendo seriamente: e se il culo di Berlusconi volesse separarsi dalla faccia? Poco plausibile, ma se succedesse? Non si meriterebbe, il culo, un poco della mia simpatia?
In fondo, cosa vuoi, i tempi son quelli che sono. Recessione, crisi, terremoti, vulcani, cavallette, non è che chieda molto dalla vita, salvo non vedere più quella faccia, quella maledetta faccia. Pur di non vederla più, appoggerei chiunque. Anche il suo culo, sì, in fondo il suo culo che mi ha fatto? Niente. Certo, lo ha seguito da vicino durante tutta la sua funesta carriera, ma nei momenti giusti ha sempre fatto rimarcare le sue divergenze. Per esempio mi ricordo una volta che la faccia di Berlusconi sudava freddo a un convegno perché voleva finire un discorso e il culo aveva deciso di no, il culo aveva un altro ordine del giorno.
Ecco, forse è stata l'unica volta che ho visto qualcuno veramente in grado di fermare Berlusconi. E quel qualcuno era il suo culo. Bisognerebbe fargli un monumento, credo che i tempi sian maturi, da qualche parte, un cippo.
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Tortellino tra i tortellini

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A me, troppi emiliani in una stanza, fanno una strano effetto, come essere...
(Ho una teoria #20! Si commenta qui).

Ne approfitto anche per segnalare, con un imperdonabile ritardo, l'ebook commemorativo sulla Resistenza Schegge di Liberazione raccolto dalla infaticabile redazione di Barabba in occasione del 25 aprile. Ci sono belle pagine, memorie, racconti ispirati alla Resistenza; e li hanno scritto i migliori bloggatori d'Italia... per dire, tra i più scarsi c'ero io, figuratevi gli altri. Godetene tutti.







Sabato l'Unità era in Emilia. C'ero anch'io. In realtà io ci sono tutti i giorni, in Emilia, ma proprio per questo probabilmente non ci faccio più caso, non ci rifletto abbastanza. Comunque sabato la carovana dell'Unità arrivava a Reggio, e io non potevo perdermela. Appeno entro provo una strana sensazione. Vedo metalmeccanici emiliani, pensionati emiliani, genitori emiliani, bambini emiliani. È da anni che non mi trovo così circondato. Non ci sono abituato; a scuola ho colleghi calabresi e allievi pachistani. Tanti emiliani tutti nello stesso posto non li trovo più nemmeno alle feste dell'U... alle feste democratiche. Mi viene un po' d'ansia, e così, mentre aspetto che cominci il dibattito politico, mi faccio un giro in centro. 

È bella, Reggio Emilia: forse non è più il gioiellino di qualche anno fa, la crisi si sente; ma i negozi sono ancora pieni di belle cose da comprare. Qualche mese fa un giornalista del Corriere venuto a intervistare i leghisti emergenti scrisse che alle sei di sera non c'era un solo italiano in piazza. Chissà in che città lo avevano portato, i leghisti emergenti. Non è che non ci siano facce scure, a Reggio. È una delle città con la più alta concentrazione di residenti stranieri. Ma ci vuole fantasia per immaginare che i reggiani doc sbarrati dentro casa alle diciotto. È un sabato normalissimo, italiani e stranieri passeggiano, mangiano il gelato, guardano le vetrine. L'ansia è passata. Torno al dibattito.

La sala nel frattempo si è riempita. L'età media, come noterà il direttore, è abbastanza avanzata. E il tasso di emilianità è altissimo, quasi insostenibile. Per carità, sono simpatici gli emiliani, ma... come i tortellini, sono buoni la domenica; non li mangeresti tutti i giorni. Troppi emiliani tutti assieme sembrano un'esagerazione. Forse perché l'Emilia non è mai stata una terra omogenea. Non esisteva, l'Emilia, al tempo delle Signorie, quando già Repubblica Veneta e Piemonte erano concetti chiari, ma Parma Modena e Bologna avevano tre signori diversi. Non esisteva all'inizio del Novecento, quando nella bassa non ancora del tutto bonificata i braccianti distruggevano le trebbiatrici e il fascismo agrario incubava. Non esisteva nel dopoguerra, quando le fonderie richiamavano lavoratori prima dal meridione, e poi dall'Africa. Io sono cresciuto in un paesino dove la seconda lingua più diffusa era il dialetto casertano: questa è l'Emilia per me. Ritrovarmi in una stanza con tanta gente che parla il mio stesso accento e mi assomiglia, mi dà una strana vertigine. Come su cento specchi deformanti, rivedo i miei tratti emiliani doc su volti più magri, più floridi, più anziani; ecco come sarò quando mi cadranno i capelli... Vorrei tornare in piazza, con gli africani che mangiano il gelato, e invece resto. Proiettano un video sui giovani leghisti emiliani. Ecco, va già meglio, quella è gente che mi sembra di aver visto in piazza. Certo, dicono scemenze a raffica. Uno ha appena finito di leggere il Piccolo Principe di Machiavelli. Però sono gli stessi giovani che stanno guardando le vetrine, che leccano il gelato nella panchina di fronte agli africani. 

A questo punto mi ritrovo in un paradosso. Quei ragazzi del video dicono di voler essere padroni a casa loro. Che vorrebbero mandare a casa i clandestini. Le solite cose. Si capisce che hanno in mente un'Emilia di soli emiliani. Proprio quella in cui sono rinchiuso in questo momento, e che mi dà un po' di nausea. Chissà se a loro è mai capitata una riunione così, di soli emiliani. Per quanto se la cantino e se la suonino, non sono ancora così tanti. Per far numero devono andare in Lombardia: per loro dev'essere un viaggio straordinario in un Paese esotico... Ma chissà, forse un giorno ce la faranno a riempire la loro assemblea emiliana. Forse quel giorno sentiranno la stessa ansia che sento io. Ma per ora non ne sono ancora capaci, fanno il 14%. Invece, sapete chi è capace di riempire un salone di puri emiliani? L'Unità. 

La cosa fantastica
 è che tutti i signori seduti intorno a me sono a favore dell'integrazione, della parità dei diritti, dell'accoglienza; gli amministratori per la verità si lamentano un po' del fatto che di stranieri ne siano arrivati troppi e troppo in fretta, e che Maroni non riesca a tenere in prigione quelli che delinquono... Il solito pragmatismo degli amministratori emiliani, nemmeno questo è una novità. Nessuno accenna alla necessità di dare diritti civili ai regolari, ma voglio pensare che lo diano per scontato. Il paradosso è che qui dentro sono tutti uguali, e vogliono accogliere i diversi. In piazza invece sono tutti diversi, e preferirebbero trovarsi soltanto in mezzo agli uguali.

Non se ne esce. Ne usciranno gli immigrati, quando finalmente entreranno in questa stanza, si siederanno, prenderanno parola, lotteranno per i diritti che gli spettano. Non possiamo farlo noi al posto loro, ci facciamo la figura di altruisti benefattori, e noi emiliani non siamo così. 

Il mio incubo
 è che forse in questa stanza gli immigrati non entreranno mai; che a un certo punto, semplicemente, se ne andranno come sono venuti, sulle tracce di un Benessere che per trent'anni è transitato anche da noi, ma evidentemente era solo di passaggio. Sono stati gli ultimi ad arrivare, ma se il lavoro non c'è più saranno i primi ad andarsene. E mi lasceranno qui, emiliano tra emiliani, tortellino tra i tortellini, e a me i tortellini – spero di non offendere nessuno – alla lunga stancano. 
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Il nostro carissimo Elmo

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Ma voi ve lo immaginate, se questi leghisti... andassero al governo? Prima in qualche comune, poi nelle province e nelle regioni del Nord, e alla fine... a Roma? Impossibile? Ne siete così sicuri?
Ho una teoria#16, sull'Unita.it (si commenta di là).

Mio carissimo ELMO, (Elettore Medio Leghista Operaio), come stai?
In queste ore di incertezza elettorale non posso che pensare a te. Sono arrivati i primi dati sull'affluenza alle urne, e pare sia molto bassa. Questo potrebbe voler dire molte cose. Per esempio, che molti berlusconiani non credono più in Berlusconi. O che i Bersaniani (ma esistono?) non credono più in Bersani. Impossibile saperlo per ora.

Quello che invece è abbastanza certo è che tu, carissimo Elmo, stai per festeggiare. L'astensionismo di solito punisce i grandi partiti di governo che non riescono a mantenere le promesse (leggi PdL) o i grandi partiti di opposizione che non riescono ad attirare gli scontenti con alternative coerenti e convincenti (leggi PD). Ma se i due giganti crollano, a festeggiare sarai tu.

A meno che anche tu non abbia deciso di astenerti... ma via, questo è impossibile. Tu non sei davvero il tipo. Non sei uno di quelli che abboccano al primo venditore di fumo. Tu hai cose concrete per cui lottare. Il federalismo fiscale, per esempio. Quando finalmente sarete al potere, lo farete. Caccerete il milionario populista che ha vinto le elezioni promettendo di abolire la tassa più federale di tutte, l'ICI sulla prima casa e, maledizione, ha pure mantenuto la promessa. E quei treni che due anni fa portarono a nord i rifiuti di Napoli, quei treni non partiranno più. Chi fu a lasciarli passare? Stavolta la pagherà.

Caro Elmo, non credo che tu abbia bisogno di sollecitazioni per fare il tuo bravo dovere civico. Sono sicuro che tu sei stato tra i primi ad entrare nel seggio, per dare un messaggio chiaro, preciso, sicuro, da parte dei lavoratori del nord, contro tutti gli sprechi assurdi che macchinano a Roma. Il Po va in malora e quelli ancora pensano al Ponte sullo Stretto. Milano perde i suoi voli internazionali, e quelli ci tolgono i soldi dalle tasche per pagare i debiti di Alitalia e regalarla ai loro amici. I treni dei pendolari cascano a pezzi, e quelli pensano ad aumentare gli Eurostar, i Milano-Roma... ma la vedranno. 

Prima o poi lo eleggerai, un Senatore o un Deputato, qualcuno che quell'Eurostar non lo prenderà per andare a far la bella vita. Salirà dritto a Montecitorio, e farà un mazzo a tutti quanti. Basta con gli sprechi! Chi ha regalato più di cento milioni di euro per ripianare il debito al Comune di Catania? E chi è questo Alemanno che per mantenere Roma ne chiede ogni anno cinquecento? Ogni volta che sei stanco e disilluso, carissimo Elmo, ricordati di loro. Ricordati che è per farla finita con gente come loro che tu hai cominciato a votare Lega, e che non smetterai, finché... finché non manderai a Roma, finalmente, un tuo Uomo. 

Un Senatore Leghista, te lo immagini? Certo, i tempi non sembrano ancora maturi, eppure... come si fa a non sognarlo già, questo rude nordista che atterra su Roma Ladrona e la riduce a più miti consigli? A me soprattutto piace immaginarmelo mentre assalta il carrozzone che è la Rai, come un Dio del tuono, un muscoloso Thor che cala il suo martello sulle fiction in costume. Quanti denari buttati via, per ricostruzioni storiche idiote e propagandistiche! Basta! Se vogliono giocare alle principessine e ai cavalieri, che lo facciano coi soldi loro.

Caro Elmo, lo so, tu mi dai del sognatore – ma non sono il solo, e inoltre ho una teoria: ogni rivoluzione è stata un sogno, da piccola. Non resta che sognarla più forte, finché non si avveri. Sarà una questione di anni, forse di decenni, ma un giorno so che ce la farete. La Lega andrà al governo. E l'Italia (pardon, la Federazione Italiana) non sarà più la stessa.
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Arriva Elmo

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Ho una teoria (#6)
Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui... [continua sull'Unità on line: potete commentarlo lì].

Ho una teoria. Per valutare l'impatto della quota Gelmini (sì, quella che limita al 30% la quota di stranieri per classe scolastica) dobbiamo cercare di entrare nella testa di chi l'ha voluta più di tutti: l'Elettore Leghista Medio Operaio (da qui in poi, per brevità, ELMO).

Elmo non è un razzista, secondo lui. In officina ha un apprendista moldavo che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Però questa cosa degli stranieri in classe non l'ha mai mandata giù, da quando il suo Elmino ha cominciato a frequentare la prima media. 

All'inizio sembrava tutto normale: Qualche volta, è vero, a suo figlio capitava di infilare un nome strano nel resoconto delle sue giornate, ma del resto Elmo conosce tanti amici che hanno chiamato i figli Brandon o Sharon. Al primo colloquio le insegnanti gliel'avevano detto: “È una classe un po' difficile”. Ma quelle si lagnano sempre e comunque, si sa.

Il vero choc furono le foto della gita scolastica. Elmo scoprì che la classe di suo figlio era uno zoo. Tre neri, uno più nero dell'altro. Un marziano con un cappuccio in testa (“ma no, papà, è un indiano, ma della setta dei sikh”). Un numero imprecisato di rumeni polacchi e quant'altro. Sei o sette su ventisette. 

“È una classe multietnica. Un'occasione meravigliosa per suo figlio”, le spiegò l'insegnante: la stessa che gli aveva detto che era una classe difficile. A Elmo qualcosa non tornava. Se davvero la classe multietnica era un'occasione così meravigliosa, perché non l'avevano offerta anche alla figlia del suo vicino, l'ingegnere? Lei aveva la stessa età di Elmino, ma sembrava molto più avanti con gli studi. È normale, le diceva sua moglie, le bambine sono più diligenti. Una mattina però al bar non aveva resistito, e si era messo a discutere di scuola con l'ingegnere. Fino ad arrivare al fatidico argomento, i bambini stranieri... 
“Sono più bravi degli italiani”, era stata la pronta risposta del vicino progressista. “Per esempio in classe con mia figlia c'è un bambino ungherese che è un genio del computer, pensi...”
“Ah sì? Beh, però poi ci sono anche quelli che... sì, insomma, fanno fatica a imparare l'italiano, e allora la classe resta indietro... cioè, li avrà anche sua figlia dei compagni così”.
“No, che io sappia no”.

Così era saltato fuori che Elmo aveva otto compagni stranieri e la figlia dell'Ingegnere soltanto uno (un genio del computer). 
“Ma certo”, gli aveva detto la moglie, “l'Ingegnere ha iscritto suo figlio alla classe bilingue tedesco”.
“E gli stranieri non ci possono andare?”
“In teoria potrebbero”.
“E allora perché non ci vanno?”
“Perché il tedesco è difficile. E poi perché c'è la lista di attesa”. 
“C'è una lista?”
“Certo che non ti sfugge niente, a te”.
“No, scusa, una lista per studiare tedesco alle medie? Cos'ha di così speciale questo tedesco?”
“Forse che gli alunni sono tutti bianchi”.

Ecco svelato l'arcano. Non c'è nessuna invasione di alunni stranieri: il problema è che sono tutti concentrati in un paio di classi, e una è quella di Elmino. Nelle altre (Elmo ha controllato i tabelloni affissi a settembre) i nomi stranieri diventano rarissimi. A quel punto, dentro di lui qualcosa si è rotto. Oppure è stata la quinta volta che ha sentito dire da un'insegnante che la classe era indietro col programma. Sia come sia, Elmo appena ha potuto ha votato la Lega. 

Quando i suoi uomini in parlamento proposero di istituire le classi-ponte, ebbe un acceso diverbio al solito tavolino del bar. “Siamo alle leggi razziali!” tuonava l'ingegnere. “La verità è che avete paura degli stranieri, che tante volte sono più bravi dei nostri figli...” Qualche mese dopo si cominciò a parlare di quote, e anche lì l'ingegnere prospettava deportazioni, Buchenwald, Dachau... La verità è che quelli come l'ingegnere hanno sempre da dire su tutto. Perché sono comunisti. Invece Elmo, più ci pensa più trova che la quota sia la cosa più ragionevole. Finalmente (pensa) gli stranieri non saranno più tutti ammucchiati in una o due classi-lager, ma sparsi su tutta la superficie scolastica. E la sorella di Elmino, che comincia le medie in settembre, non finirà più in un ghetto di analfabeti. Forza Gelmini!

In agosto, leggendo il tabellone delle nuove classi, Elmo avrà un colpo al cuore. Su 29 compagni di Elmina, 15 avranno il cognome straniero. A questo punto magari andrà a chiedere al Preside: Cos'è, un'invasione? Dove sono finite le quote? Ma allora è vero che questa scuola è un covo di rossi dove si ignorano le direttive ministeriali? E il preside, che gli risponderà?

“Prima di tutto, vorrei tranquillizzarla. Una classe multietnica, come quella in sui è stato inserita sua figlia, è una meravigliosa opportunità...”
“Bla bla bla, conosco il discorso. Quello che vorrei sapere è come mai qui non si rispettano le quote di stranieri”.
“Ma noi le rispettiamo. Nella classe di suo figlia ci sono nove alunni stranieri”.
“Di più che tre anni fa! E le quote?”
“La quota è del 30%. Il problema è che con i tagli il numero di studenti per classe è aumentato. Nella classe di suo figlio sono in trenta: il 30% di trenta è un po' più di nove, un po' meno di dieci. Siamo in quota”.
“Ma scusi... io qui leggo almeno sedici cognomi che non sono italiani. Non nove. Sedici”.
“Certo, perché poi ci sono gli stranieri nati in Italia. Il Ministero ci ha detto che nella quota non vanno contati”.
“Ah, non vanno contati”.
“No”.
“Ma perché devono sempre finire tutti in classe coi miei figli... cioè, io non è che sono razzista, eh... ma non riesco a capire. Perché non ne mettete un po' anche in prima A?”
“La A è la classe di tedesco...”
“Sì, lo so, c'è una lista. E in B?”
“Il B è la sperimentazione musicale”.
“E allora? Sono tutti stonati gli stranieri?”
“No, ma c'è una lista d'attesa anche lì”.
“E la C?
“È una classe molto ambita, non ha rientri al pomeriggio. Sa, per i bambini che hanno molte attività extrascolastiche: nuoto, equitazione...”
“C'è la fila anche lì”.
“Diciamo che gli stranieri hanno meno attività extrascolastiche. È tutto chiaro, ora?”

Sì. Nella mente di Elmo ora è veramente tutto chiaro. Non è colpa della Gelmini, lei ha fatto quel che ha potuto. Il problema è che i comunisti sono veramente diabolici. Fatta la legge, trovano l'inganno. Fanno studiare ai loro figli tedesco, flauto traverso, equitazione, qualsiasi cosa per tenerli lontani dai negri... e quelli che ci rimettono sono i suoi figli. Comunisti maledetti. Ma verrà un giorno. Quando prenderemo il potere...
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Aussichten auf den Bürgerkrieg

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Di ronda in ronda

Se chiedete ai nonni, forse qualcuno ancora si ricorda, di quando non c'erano le ronde nel quartiere. La gente aveva paura a uscire in strada, non sapeva di chi fidarsi.
Certo, quando proprio le cose si mettevano male c'erano i Poliziotti. Si chiamavano col telefono, e a volte arrivavano, con le macchine le sirene le mitragliette – ma poi si mettevano a fare domande a tutti, così alla fine nessuno li chiamava volentieri.

Invece gli Uomini in Verde, quando cominciarono a venire, non facevano domande. Soltanto: tutto bene Signori? Possiamo esservi utili in qualche modo? Erano gentili, e non mostravano le armi. Si fermavano sempre al bar da Pino a prendere il caffè, e insistevano per pagarlo. Poi si mettevano a chiacchierare (di calcio, più che di politica) fino a mezzogiorno, quando si dirigevano verso la scuola. L'anno prima era morto un ragazzino, messo sotto da un pirata, così i Vigili non si erano lamentati troppo quando gli Uomini in Verde avevano cominciato a dare una mano col traffico. Inoltre, da quando erano arrivati, non si era visto più un solo spaccino del Magreb intorno alla scuola. Si capisce che i genitori fossero molto contenti degli Uomini in Verde – molti di loro presero anche la casacca, erano felici di dare una mano.

Poi ci furono le elezioni, e nel quartiere il partito degli Uomini in Verde vinse a man bassa.

Dopo le elezioni ci furono dei tagli, per via della crisi economica. Davanti alla scuola non c'erano più vigili, ma all'inizio nessuno ci fece caso. Tanto c'erano gli Uomini in Verde, ed erano capaci di dirigere il traffico quanto chiunque altro. Anzi, molti automobilisti del quartiere avevano più rispetto dei Verdi che dei Vigili, perché i Verdi ormai erano tutta gente del quartiere, che sapeva chi eri che mestiere facevi e dove parcheggiavi la macchina, così non era proprio il caso di fare gestacci al finestrino. Così, man mano che i semafori si spegnevano, il traffico rimase in mano ai Verdi, ma funzionava. Si facevano meno incidenti, la gente ci metteva più attenzione. Non era più come una volta, quando guidare in città era come schivare i birilli: adesso dovevi stare attento a chi ti osservava; guidare era tornato a essere un gioco di relazioni. Lo dicevano anche i sociologi: le Ronde ci hanno costretti a uscire di casa, a riprendere in mano la città. Gli Uomini in Verde vinsero anche le elezioni successive.

Però la crisi economica continuava, e molti onesti padri di famiglia cominciarono a chiamarsi fuori. Il fatto è che le ronde erano cominciate in sordina, come un dopolavoro per pensionati, e man mano erano diventate sempre più importanti. Fare un turno agli incroci poteva essere molto stressante, e anche se tutti ti dicevano grazie e votavano per il tuo partito, ugualmente dopo un po' cominciavi a sentirti un pirla a farlo gratis. Alla fine restarono soltanto i più esaltati, e i disoccupati: e quest'ultimi (alcuni dei quali magrebini) ormai le ronde le facevano soltanto intorno alla villetta dell'Assessore alla Sicurezza, quello eletto coi voti degli Uomini in Verde. Costui alla fine riuscì a sbloccare qualche fondo, ma erano briciole.

Nello stesso periodo un odioso piromane cominciò a dar fuoco alle automobili del quartiere, una ogni notte. A quel tempo ormai la Polizia non aveva più compiti di sorveglianza: in base al principio di sussidiarietà si dava per scontato che a queste cose ci pensassero le ronde. Anche gli Uomini in Verde ritenevano che la cosa fosse affar loro; soltanto chiedevano ai residenti del quartiere di contribuire alle spese per la vigilanza notturna. Così fu organizzata una colletta: gli Uomini in Verde passavano di casa in casa, e ciascuno dava secondo la sua necessità.

Fu una gara di generosità davvero commovente: tutti diedero qualcosa. Solo Pino, il titolare del bar, non volle partecipare, per via di una vecchia bega col boss degli Uomini del quartiere, un vecchio conto da saldare. Beh, sì, certo, era capitato spesso al boss di offrire da bere ai suoi uomini, al termine di un turno faticoso, e tante volte aveva detto “segna sul conto”: sempre in attesa di quei maledetti fondi che non arrivavano mai, ma la colpa di chi era? Comunque se Pino non voleva pagare per la vigilanza, per la protezione, era un suo diritto, erano fatti suoi.

La colletta fu un successo: nessuna automobile prese più fuoco nel quartiere. Un mese dopo tuttavia fu il bar di Pino ad andare in fiamme.
I famigliari gli sconsigliarono di chiamare la polizia. Cercarono anche di convincerlo ad accettare la generosa offerta del Boss, che voleva rilevare le macerie del bar per installarci un Circolo Ricreativo degli Uomini in Verde. Pino però era una testa dura, e aveva contatti in altri quartieri. Vendette la licenza a un suo lontano parente, e sloggiò. Il bar, trasformato in Ristorante, riaprì due mesi dopo, con certe ceffi dentro che nessuno aveva mai visto in zona. Quando gli uomini in casacca verde provarono a entrare, furono cortesemente accompagnati alla porta con qualche colpetto di manganello alla nuca. Questo rese chiaro a tutti che gli Uomini in Nero avevano messo piede nel quartiere.

Gli Uomini in Nero non avevano mai avuto una grande presenza in zona, ma in altri quartieri erano maggioranza. Si raccontavano cose favolose e un po' orribili sui quartieri gestiti dai Neri: scolaresche al passo dell'oca, stranieri segregati eccetera, ma in gran parte erano leggende. Certo, avevano un'organizzazione un po' più militare, e questo in certe situazioni poteva servire. Per esempio, il Comandante Nero a cui era stato affidato l'ex bar di Pino era un fine stratega e sapeva che lo scontro frontale coi Verdi, per il momento, era fuori discussione. Bisognava andarci piano; così quando seppe dell'increscioso incidente andò pubblicamente a chiedere scusa al Boss dei Verdi, e lo invitò anche al ristorante, a bere alla sua salute e a sue spese. Il Boss ci andò; rifiutare l'invito l'avrebbe messo in cattiva luce, bisognava dimostrare di aver coraggio.

Quel pomeriggio, mentre il boss dei Verdi brindava nel locale dei Neri, ci fu una rissa davanti alle scuole. Una squadra di Uomini in Nero circondò tre magrebini in casacca verde che spacciavano. Questo era quello che facevano per vivere, da sempre: prima in borghese, poi, adeguandosi allo spirito dei tempi, in casacca verde. Inchiodati dalle prove fotografiche (e al vecchio semaforo in disuso), i tre spaccini fecero crollare l'indice di gradimento degli Uomini in Verde nel giro di una mezza giornata. La raccolta fondi porta a porta cominciò a fruttare meno: anche se nessuno osava rifiutare un obolo, quasi tutti piangevano miseria, trovavano scuse, scucivano spiccioli. Il boss Verde era già l'ombra di sé stesso, quando, una settimana dopo, girando la chiave della macchina saltò in aria. La raccolta fondi fu temporaneamente sospesa. Un mese dopo ci furono le Comunali e gli Uomini in Nero, a sorpresa, s'imposero nel quartiere.

La loro raccolta era molto più scientifica: si trattava anche per loro di dare ciascuno secondo le proprie possibilità, ma queste possibilità erano calcolate in base alle dichiarazioni dei redditi, grazie alle talpe che gli Uomini in Nero avevano nell'Ufficio Entrate. Tanto che in un certo senso la dichiarazione era meglio farla al sindacato degli Uomini in Nero, così i soldi per la protezione li detraevi direttamente dalle imposte. Insomma, da un punto di vista burocratico il progresso era innegabile. I verdi erano sempre stati dei simpatici cialtroni in questo senso.

Il guaio dei Neri era la loro fissa col colore della pelle. Il quartiere era multietnico da quasi mezzo secolo; e questa idea che le ronde spettassero solo ai bianchi non passava. Era un vero e proprio boomerang; i ragazzetti con la pelle scura, che fino a pochi anni prima avevano potuto scegliere se spacciare o fare le ronde, ora dovevano per forza mettersi a spacciare. Nel giro di sei mesi il parcheggio della scuola divenne una delle principali piazze di smercio della città. La gente cominciò a brontolare. Il Comandante Nero non ci badava. La gente cominciò a sussurrare che il Comandante Nero ci prendesse delle percentuali, in contanti e in polvere purissima. Il Comandante mandò una squadraccia a pestare gli spaccini. Tornarono alla base col manganello fra le gambe. Cos'era successo?

Era successo che il comandante Nero aveva sottostimato il problema. Il parcheggio della scuola era diventato una piazza talmente interessante da attirare l'attenzione della gang Morales, una banda di narcotrafficanti di origine andina con ramificazioni in tutto il mondo, che finanziava la Revolucion Permanente vendendo droga ai viziati occidentali. Il core business dei Morales erano ovviamente i derivati della foglia di coca, di cui detenevano praticamente il monopolio nel lato nord della città: fornitori ufficiali del Sindaco, fronteggiarli era fuori discussione. Non solo, ma lo stile di vita libertario e lassista della gang stava facendo presa sulle giovani generazioni, che dopo pochi anni di marce e saluti romani ne aveva già abbastanza. La gang aveva anche un suo braccio politico, la lista rossa Izquierda y Libertad. Per quanto in crescita, difficilmente avrebbe potuto imporsi le elezioni, a meno che... non si fosse alleata coi Verdi.

Fino a qualche anno sarebbe sembrato impossibile, ma la politica ti porta a letto con strani compagni. Con l'aiuto dei Morales, la circoscrizione tornò in mano ai Verdi. Il loro capo, fratello minore del Boss esploso, fece giusto in tempo a prestare giuramento: un cecchino dei Neri lo centrò da un cornicione. A quel punto i Morales fecero una chiamata intercontinentale. Qualche giorno dopo il comandante Nero, accerchiato nel privé del suo ristorante, sollevò il capo da un vassoio di coca e vide sugli schermi a circuito chiuso che gli uomini della sua sorveglianza venivano strangolati da... incursori della marina boliviana? Oh, beh, “Me ne frego”, pensò lui: imbracciò il suo bazooka, spalancò la porta e...

“Qui c'era un ristorante, dieci anni fa”.
“Io mi ricordo un bar”.
“Il bar di Pino. Poi è andato a fuoco, e al suo posto ci hanno fatto una villa. E ora questa... questa voragine”.
“È stato un missile terra-terra, due anni fa. I Verdi stavano facendo una convention, una specie di rito celtico, che ne so io... qualcuno ha informato i Morales...”
“Ma non erano amici, una volta?”
“Divergenze. Pare che i Verdi non volessero più coca nel quartiere. Dicevano: noi vi proteggiamo, va bene tutto, anche le serre di cannabis sui terrazzi sono ok, però non vendete ai nostri ragazzi. E così...”
“I ragazzi sono passati tutti coi Morales”.
“È più complicato di così. I Morales non hanno problemi a finanziarsi. I Verdi invece continuano a stressare col pizzo, porta a porta, molta gente non ne poteva più. Qualcuno cominciava a rimpiangere persino i Neri”.
“Bene, e noi in tutto questo?”
“Ecco, dopo lo sterminio dei Verdi si è creato un certo senso d'insicurezza nel quartiere. È tutto in mano agli spacciatori e la gente non esce più di casa. Così il Monsignore ha pensato che potrebbe toccare a noi”.
“Ma i Morales...”
“Ci ha parlato il Monsignore, è tutto ok. Anche loro pensano che il quartiere sia un pessimo biglietto da visita. Ha bisogno di una ripulita”.
“Ci alleiamo coi rossi?”
“Solo all'inizio. Mettiamo su una chiesa, un oratorio, una sezione di Comunione e Liberazione, e quando avremo tirato un po' di gente dalla nostra, allora...”
“Quelli hanno i missili”.
“Ma noi abbiamo Dio”.
“E basta?”
“No, se vuoi saperlo è arrivata anche quella partita di granate all'uranio impoverito, contento?”
“Rendiamo grazie a Dio”.

Se chiedete ai nonni, forse qualcuno ancora si ricorda, di quando non c'erano le ronde nel quartiere. La gente aveva paura a uscire in strada. Non sapeva di chi fidarsi.
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Come diventare leghisti, 2

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Ho visto verde

“Mi perdoni Padre, perché...”
“Non sono tuo padre”.
“Già, ma a me piace cominciare così”.
“Sciocchezze. Insomma, che hai combinato?”
“Ahem”.
“Hai mentito? Rubato? Pensieri impuri?”
“Nella media”.
“Hai mangiato senza fame? Bevuto senza sete?”
“Mi faccia pensare... no”.
“E allora perché sei qui, andiamo, sputa il rospo”.
“Io... credo di essere stato leghista”.
“Questa è nuova. Tu?”
“Io, sì”.
“E quando sarebbe successo, questo tuo... questo tuo leghismo”.
“Stamattina, quando ho sentito del barcone, io...”
“Stamattina tu saresti diventato leghista”.
“Per un momento sì, Padre”.
“Non sono tuo padre”.
“Ma non è questo il problema. Per un momento ho visto verde. Lo giuro”.
“Ma poi ti è passata”.
“Non ne sono sicuro”.
“Va bene, racconta”.
“Alla tv, parlavano di questo barcone che hanno respinto nelle acque internazionali. Una vergogna. Secondo me l'umanità finisce lì. Cioè, quando respingi qualcuno disarmato, tu sei fuori da qualsiasi umanità. Ci processeranno tutti per questo, un giorno”.
“Tutti?”
“Ma sì, perché siamo tutti d'accordo, non lo sa? Vada al bar, dica che Maroni spara all'orfano naufrago e alla puerpera disidratata, anzi peggio, dica che li abbandona in mare... otto su dieci le diranno Giusto! Così le diranno! Diranno che hanno votato Pdl apposta! Non ci crede, Padre? Vada...”
“Non sono tuo padre. Sono la tua Coscienza. Non posso andare al bar”.
“Ci processeranno un giorno. E non potremo neanche dire che eseguivamo gli ordini, perché non abbiamo eseguito niente noi. Noi gli ordini li davamo, noi votavamo per la legge e per l'ordine e quelli...”
“Tu però non sei d'accordo, mi pare”.
“In linea di massima no. Ma stamattina”.
“Stamattina c'eri anche tu, al bar, a dire giusto! a Maroni?”
“No, a quell'idiota no”.
“E allora non sei diventato leghista”.
“Eh, lei la fa semplice, padre. Pensi che non lo sappiano i leghisti che è un idiota? Ma è tanto utile, dicono”.
“E l'hai detto anche tu”.
“Io non ho detto niente, ma per un attimo ho pensato... ho visto una cartina geografica”.
“Non ti seguo”.
“Padre, le spiego, era in tv. Una normalissima cartina geografica con l'Italia che spenzola nel mediterraneo, e ho pensato: non è tutta colpa nostra”.
“No, probabilmente no”.
“Siamo un ponticello di terra tra il Sud e il Nord del mondo, abbiamo già il nostro daffare a sembrare europei. La crisi mondiale non l'abbiamo mica scatenata noi”.
“Neanche gli africani”.
“Sì, ma neanche noi. Abbiamo tutti gli indici a picco. Diventiamo più poveri mese dopo mese. Non possiamo continuare con la manfrina dell'ospitalità incondizionata”.
“Come fai a dirlo, hai fatto un calcolo?”
“No, ma a occhio si vede... e poi non sto ragionando con la testa, Padre, capisce? È inutile che mi dica che c'è abbastanza torta per tutti. Io continuo a vedere gente che viene su, è normale che mi venga paura”.
“Stai parlando per te o per tutti?”
“Sto facendo la media. Siamo poveri ed egoisti. Ci sono motivi storici per cui siamo diventati così. E il trovarci in mezzo a una migrazione planetaria non ci può assolutamente trasformare in persone migliori. Siamo capaci di tutto noi. Il fascismo che verrà farà impallidire quello che c'è stato”.
“A meno che?”
“L'Europa ci deve aiutare. Siamo degli irresponsabili, ma non è tutta colpa nostra. Tutti ci devono aiutare. Lasciarci in mezzo al mare a impazzire non conviene a nessuno”.
“Ed è per questo che ritieni giusto lasciare degli africani in mezzo al mare a morire?”
“No. Non lo ritengo giusto. Lo ritengo criminale”.
“Però...”
“Però forse va fatto. Bisognava soltanto trovare qualcuno così idiota da farlo”.
“E alla fine lo abbiamo trovato”.
“Proprio così, Padre, è questo che ho pensato”.

“Hai pensato a Maroni come a un utile idiota”
“Ho visto verde, e non mi perdono”.
“E magari quando vi processeranno tutti, tu ti chiamerai fuori... Io non ho mai votato per quelli...
“Avere avuto un blog mi tornerà utile”.
“Si tratta di tenerli al potere per un po', lasciare che ne ammazzino un po', e poi disfarsene”.
Con il referendum, per esempio. È per questo che bisogna sgaggiarsi. Ancora pochi mesi e poi dev'essere tutto pulito”.
“Hai pensato a questo, stamattina”.
“Padre, sì”.
“Non sono tuo padre, e tu non sei un leghista”.
“No?”
“Non lo sei mai stato”.
“Neanche stamattina?”
“Neanche stamattina. Piuttosto, sai cosa? Un liberale”.
“Un liberale, io?”
“Lo so, è una parola che vuol dire tutto e niente. Ma io pensavo proprio a quelli sui libri di Storia, Giolitti, Facta... anche a loro serviva qualche utile idiota con la camicia strana che tenesse pulite le strade. Qualcuno di cui poi disfarsi alle elezioni”.
“E non è andata così”.
“Era gente di buon senso. Talmente di buon senso che non si aspettavano di doverlo condividere con la gente nei bar. Se lo tenevano ben stretto”.
“Mi perdoni Padre, perché...”
“Non sono tuo padre. Non ti perdono”.
“E dai, su, papà”.
“Zitto. Zitto. Non voglio più sentirti. Basta”.
“Perché zitto? io...”
“Perché da oggi sei nella maggioranza silenziosa. Fine”.
“La maggioranza silenziosa? Ma no, aspetta, io...”
“Ssssht. Con chi parli? Non hai nessuna coscienza d'ora in poi, solo un silenzio enorme che alla lunga ti spaccherà i timpani. Chiuso”.
“Papà, adesso non esageriamo, su, io... papà? Papà?”
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La strategia del verme

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A sinistra tira un'aria di ritirata strategica, non so se ci avete fatto caso. Basta leggere sociologi autorevoli come Diamanti, o blogger autorevoli come Trino (su Inkiostro, il blog dell'anno). In mezzo a tutto questo, mi capita di trovare in mezzo al mio antispam questo "comunicato", che probabilmente dovrei cancellare... e invece no, è da una settimana che non so cosa scrivere, ve lo copincollo e vediamo cosa succede.


Partito Resistente Clandestino (nome provvisorio)

Comunicato #1 - Marzo 2009

Amico, compagno, anche semplice conoscente:

Questo comunicato ti è stato inviato da una persona fidata, che ti conosce come persona “di sinistra”. Per favore, non cominciare a obiettare sulla definizione di sinistra, su cosa sia la sinistra per te che non è per tutti quelli un po' diversi da te... lo sappiamo, è una storia lunga. Chi ti ha mandato questo comunicato sa che il partito in cui ti riconosci (ammesso che ti sia mai riconosciuto in qualcosa di così ottocentesco come un partito) non esiste più da due, dieci, venticinque anni; oppure esiste ancora degradato a cifra simbolica con una patetica esistenza extraparlamentare. Se ti riconosci in tutto questo, continua a leggere.

Leggi a fondo e poi, per favore, cancella. Sappiamo che questa è una prassi ormai sconosciuta, che il tuo hard disk per quel che ne sai potrebbe contenere ancora la mail con cui dieci anni fa invitavi per la prima volta fuori la tipa a cui adesso paghi gli alimenti; sappiamo. In realtà è abbastanza difficile che in futuro questo comunicato potrà essere usato contro di te. È una catena come tante; non contiene foto di minorenni, passerà inosservata. Ma la rivoluzione passa anche dal recupero di oggetti desueti, come il Cestino; e di una certa salutare aria di clandestinità che abbiamo smesso da un bel po' di respirare. Certo, ormai su facebook siamo tutti “amici”... no, ma va tutto bene, continua pure a usare fb, a pubblicarti le foto segnaletiche da solo... tutto questo (lo scoprirai in fondo) ha una sua utilità. Cerchiamo però di separare le cose “sociali” da... quelle serie, ok? Perché in fondo quello che ti chiediamo, compagno, è tutto qui: passare alla clandestinità.

Aspetta. Non ti chiediamo di mollare famiglia, lavoro e affetti... anche se magari ne hai una gran voglia, sì, ma non è il nostro caso, ci dispiace. Se l'Italia ti fa schifo e vuoi mollare, molla, cancellaci e fai finta di non averci mai letto, comprati un biglietto d'aereo e fatti trovare ogni tanto alle pizzate di Severgnini. No. Quello che ti proponiamo è di mantenere il tuo lavoro, la tua famiglia, il tuo posto nella società (annesso profilo facebook), ma nel frattempo... di sdoppiarti un po'. Avrai una tua piccola vita segreta. Sì, diventerai un cospiratore. Per il bene della tua nazione. Pensaci.

Non si tratta nemmeno di commettere grossi crimini, per ora. Se ti è già capitato di passare col rosso o dire qualche bugia alla mamma possiedi già tutta l'elasticità morale che ci serve. In effetti, si tratta per lo più di dire bugie. Parecchie. E – cosa un po' più delicata – di continuare a dirle per per mesi o per anni, senza però cominciare a crederci. Grandi uomini del nostro passato non ce l'hanno fatta, tu ci riuscirai? Non lo sappiamo, ma a questo punto comunque non abbiamo molto da perdere.

Compagno. Guardiamoci negli occhi. La sinistra in Italia ha perso la guerra. L'ha persa da anni, ormai: forse da quando il PCI è venuto meno al suo ruolo di partito di massa, oppure forse no, chi lo sa, ma per favore non litighiamo sul passato: è passato. Quello che onestamente potevamo aspettarci da Veltroni era una resa onorevole, che non c'è stata. Dopo vent'anni di lotte, l'impero mediatico di Berlusconi è più saldo che mai, e noi viviamo in una realtà virtuale confezionata tra Cologno Monzese e Saxa Rubra. Tutto questo potrà anche sembrarti un po' esagerato, ma se dai un'occhiata a qualsiasi tg sai che è vero: i nostri incubi di quindici anni fa si sono avverati. È che un incubo, a furia di viverci dentro, comincia a sembrare un po' meno brutto, in fin dei conti persino abitabile, e così... a lungo andare ci siamo accomodati. Ti sei scavato la tua nicchia confortevole, come un vermiciattolo nella mela marcia, è così? Hai foderato la tua tana coi tuoi dischi/libri/film preferiti, non è vero?

Ebbene, compagno, non ti biasimeremo per questo. Anzi! Hai fatto bene! Col tuo gesto apparentemente individualista e snob, ci hai mostrato la via. Comincia a pensare ai tuoi anni zero come se li avessi passati nel tuo bozzolo personale, fabbricato con la tua bava, in attesa che ti si schiudessero le ali! Ora che tutti ormai ti conoscono come un individualista disincantato, uno che non s'interessa di politica da una vita, ecco questo è il momento di passare alla fase B. Di passare in clandestinità. Di infiltrarsi.

Perché è di questo che stiamo parlando, compagno. La rivoluzione ricomincia da qui. Fuori dagli steccatini ridicoli con cui Ferrero o Vendola difendono il loro zero per cento. Fuori dal partito ex di sinistra, liquidato dal democristiano Franceschini. Gente che nei loro bunker tratta ancora sulle condizioni di una resa che nei fatti è già incondizionata. Il futuro è altrove. Nei giovani che nei prossimi anni andranno a votare, e si troveranno a scegliere tra Berlusconi, Lega e Neofascisti. Ebbene, compagno, lì devono trovare noi. Dobbiamo infiltrarci. Entrare nel PdL, nella Lega, nei Fasci. Non è poi così difficile. Dopo un po' potresti persino trovarlo divertente.
Prova a immaginarti, Compagno, mentre vai a informarti in comune: “voglio anch'io entrare in una Ronda, come si fa?” Difficile che si mettano a indagare sul tuo confuso passato di sinistroide, e anche se fosse? Il fatto che hai cambiato idea non è la migliore dimostrazione che stanno vincendo? Compagno, se si tratta di farsi qualche giro di notte nei quartieri, tu sei in grado di farcela come chiunque altro. E se anche solo venti grammi del tuo cervello funzionano ancora bene, nella Lega dovresti far carriera.

E se la Lega al tuo paese non c'è, ci saranno bene i fascisti, no? Quelli sono un po' più impegnativi, perché hanno questa fissa coi libri da leggere... Pound, i futuristi... ma parliamoci chiaro, in due serate su wikipedia dovresti essere in grado di sostenere una conversazione sui massimi sistemi. Tutto quello che devi dimostrare è di essere un tipo quadrato e pieno di voglia di fare. Non devi per forza scalare i vertici: cerca di infilarti nel reparto Reclutamento. Fatti trovare sempre dove arrivano i ragazzini. Coi trentenni è già impossibile ragionare.

E una volta che sarai lì... simula certezze, semina dubbi. Pensi che sarà difficile? Non sarà difficile. Tanti quadri del grande Pci sono usciti dalla Gioventù universitaria fascista. Basta una mela marcia a rovinare un raccolto: comincia a pensare a te stesso come a quella mela marcia.
Tutto chiaro? Ora cancella, e aspetta istruzioni. Chi ti ha contattato si farà vivo. Se ti accorgi che è un po' cambiato, che sta frequentando gente impresentabile, che gira di notte con una camicia buffa e saluta alzando la mano... non preoccuparti.
Sta andando tutto bene.

Per il Partito Resistente Clandestino - Nome Provvisorio
Il Segretario "Vero Eretico"
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A Yu

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Indovina chi va al Liceo

In questi giorni tutti hanno la loro storia sul piccolo extracomunitario che arriva in classe. All'inizio è timido timido, ma è costretto a imparare: anche solo per difendersi! E alla fine dell'anno infatti parla italiano come tutti, alleluja. Integrazione riuscita – una bella storia, sì. La conosco anch'io. Adesso però ve ne racconto un'altra.

C'era una volta un ragazzino cinese che era appena arrivato in Italia, siete pronti? In italiano zoppicava, comprensibilmente, ma era un mostro in matematica, estraeva a occhio le radici quadrate, i logaritmi, eccetera. Così il suo prof d'italiano, al primissimo incarico, pensò che poteva anche indirizzarlo allo scientifico, perché no? Col tempo l'italiano l'avrebbe imparato. Già in pochi mesi aveva capito come esprimersi – e poi aveva quella razionalità assoluta che è da liceo, non da istituto tecnico; insomma, lo fece. Scrisse “Liceo Scientifico” sul consiglio d'orientamento. Dopo qualche mese il Liceo lo andò a chiamare. Questo professorino non sapeva ancora niente del mondo, niente di niente, così ci andò.
Gli chiesero un parere su tutti i suoi alunni che si erano pre-iscritti allo scientifico, e lui glielo diede. Alcuni erano promettenti, altri nemmeno un po' ma si erano iscritti lo stesso, ecc. ecc. E alla fine gli chiesero: perché ci ha mandato questo qui, che dal nome è cinese?
E lui (che non sapeva niente del mondo) rispose: in effetti è cinese, ma è molto bravo in matematica.
E loro: sì, però lo sa l'italiano?
E lui: no, veramente non tanto. È appena arrivato. Però è in grado di imp...
E loro: ma se non sa l'italiano, come fa ad andare al Liceo?
E lui a quel punto ebbe un'idea. Disse: potreste insegnarglielo voi, l'italiano. Prof d'italiano ne avete.
E loro: ma no! Noi non facciamo queste cose. Doveva iscriversi a ragioneria.
A questo punto lui non disse più niente, ma pensava: è ben curioso che a ragioneria siano in grado d'insegnare italiano a un cinese, e al liceo no.

Qualche anno dopo, a un angolo di strada, il professorino reincontrò il ragazzo, che si era fatto grande, e gli chiese: Yu, come va? Sei sempre allo scientifico?
No, rispose lui, mi hanno bocciato e mi sono iscritto a ragioneria.
Era un mostro della matematica, però non aveva ancora capito la differenza tra “li” e “gli”, e quindi lo bocciarono. Così è la vita, e adesso il professorino si domanda: quelle mie colleghe che lo bocciarono, il trenta andranno a Roma a manifestare contro le classi ponte? Perché io nello stesso corteo con loro non ci starei, siccome mi fanno un po' schifo.

Tutti ovviamente crediamo nell'integrazione. Voi, poi, non vedete letteralmente l'ora che avvenga. Una volta che il bambino timido timido ha imparato tre parolacce italiane dal compagno, siete prontissimi a concludere che l'integrazione è avvenuta. Siete fantastici. Mentre vi riempite la bocca di integrazione, iscrivete vostro figlio al liceo. Anche se sui libri si annoia, e darebbe qualcosa di più in un bel tecnico. Ma i tecnici sono troppo pieni di brutte facce, di facce scure... no, meglio il liceo.

Per voi va benissimo la scuola così com'è: il negretto che è appena arrivato è tanto carino, cosa importa se durante le lezioni di storia e geografia s'addormenta, perché non capisce niente? Tanto non deve mica imparare la storia, lui: basta un po' di alfabeto, un dizionario minimo, e se alla fine dell'anno non sa ancora nulla, si boccia. Tanto non deve mica andare lontano, no? Mica deve fare il liceo, lui, si annoierebbe. Lui è da professionale. E' da cantiere. Mica gli serve conoscere Napoleone.

E vi credete pure progressisti. Non avete la minima idea. La verità è che siete Spencer Tracy all'inizio del film. Ecco cos'è l'italiano progressista medio: un benpensante americano anni '60. Finché vostra figlia non vi si presenterà con Sidney Poitier a braccetto non ve ne renderete conto. Le scuole a cui l'avete iscritta sono dieci volte più classiste di quelle che avete frequentato voi (che già non scherzavano). Finite le medie, gli stranieri approdano per l'80% al professionale – bella l'integrazione, bello tutto, però adesso lasciateci pascolare la classe dirigente senza i vostri pittoreschi musi da scimmia, grazie. Non abbiamo tempo per alfabetizzare i futuri geni della matematica, dobbiamo far memorizzare gli aoristi alla prossima infornata di fighetti. Però giù le mani dalla scuola multietnica! Anche se i nostri figli li iscriviamo alla classe speciale musicale. O bilingue. O qualunque cosa, qualunque cosa che tenga lontano il nostro fragile virgulto dalla teppa scura.

State tranquilli. Le classi ponte non passeranno. Per un semplice motivo: costano. Ci vorrebbero le strutture, e poi bisognerebbe formare gli insegnanti, pensateci bene: formare gli insegnanti. State tranquilli. Nessuno ci formerà, nessuno è in grado. Continueremo a fingere d'insegnare italiano lingua straniera come stiamo facendo da anni, anche se nessuno ci ha spiegato come si fa: è una truffa, ma evidentemente vi sta bene... e poi non truffiamo voi, vero? Truffiamo gli scimmioni.

State buoni. Le classi ponte sono solo uno slogan. Ogni tanto i leghisti hanno bisogno di farsi sentire dal loro elettorato. Del resto, non è lo stesso problema di Veltroni? Che bello poter difendere la scuola multietnica in tv, che bello poter accusare gli altri d'inciviltà. Nel frattempo sua figlia studia negli USA, dove le classi differenziate per chi non sa l'inglese sono una normalissima realtà. Ma questo non importa. I leghisti hanno fatto un po' di baccano, Veltroni ha fatto un po' di controbaccano. I conti si faranno alle elezioni. Già, le elezioni.

Qualche mese fa ci si lamentava che i leghisti raziassero voti tra gli operai, che il PD avesse perso il contatto con la base popolare, ecc. ecc. C'era chi diceva: “torniamo in fabbrica!” Ci siete poi tornati?
Io sono rimasto a scuola. È più che sufficiente. Ho visto i ricchi iscrivere i figli alla sezione dei ricchi. Ho sentito di presidi che iscrivono d'ufficio tutti gli stranieri a una sola sezione, o a una sola succursale.
Adesso lavoro in una prima con 11 stranieri. Due non parlano l'italiano, semplicemente: gli altri avrebbero passato qualsiasi esame d'ammissione, e quindi non avrebbero frequentato la fantomatica classe ponte. Il punto non è che siano 11: il punto è che in un'altra prima ce ne sia soltanto uno, o due.
Una classe con tanti stranieri non è necessariamente più difficile di una classe con tutti gli italiani. Anzi, è un ambiente molto stimolante. Ma si resta indietro col programma, semplicemente. C'è meno tempo, e quindi s'imparano meno cose. Gli stranieri forse non se ne rendono conto (e comunque non votano). Ma gli italiani sì. E possono avere la sensazione che il loro figlio sia stato inserito in una serie B. Che l'integrazione si faccia sulla loro pelle. Provate a spiegar loro che non è vero. Quando i bambini delle altre classi andranno in gita tre giorni, e loro soltanto un giorno solo, perché chiedere soldi a certe famiglie è impossibile o imbarazzante.

Ecco, questi sono i genitori che avevano bisogno dello slogan “classe ponte” per ricordarsi di votare Lega. Voi probabilmente no. Voi per vostra figlia avete altri progetti. Non mi resta che augurarvi che venga Yu a prendersela, vostra figlia, col suo diploma di ragioneria, e se la porti nel buco del c. della Cina. Forse allora rivedrete il vostro concetto d'integrazione. E forse, chissà, nemmeno allora.
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Come diventare leghisti, 1

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La scuola di Pippo

Benvenuto alla rubrica saltuaria: Come diventare leghisti. Un viaggio nell'abiezione umana a cura della redazione di Leonardo. Ogni riferimento a cose e persone è doloroso.

Pippo è un operaio specializzato. Vive in una villetta e ha tre vicini: Amintore, Palmiro e Bettino. Amintore è avvocato, Palmiro professore, Bettino agente di commercio.
Pippo non ha la sensazione di guadagnare moltissimo in meno di loro, eppure si sente sempre un po' tagliato fuori. Come se nessuno gli avesse spiegato le regole del gioco. Per esempio:

I figli di Amintore, Palmiro, Bettino e Pippo, hanno tutti frequentato la quinta elementare nel 2007/08.
In gennaio, presentendo la promozione, Amintore ha iscritto suo figlio all'Istituto Santissimo Cuore di Gesù, “un ambiente molto protetto”, dice lui. “Si sa, coi tempi che corrono”.
In primavera Palmiro, che non crede nelle scuole private, ha prenotato un posto per la sua Nilde nella classe a sperimentazione musicale della locale media pubblica. “È un ambiente molto stimolante, e poi... ci vanno solo quelli che... insomma, quelli che hanno proprio voglia di impegnarsi”.
Anche Bettino sentiva un'analoga vocazione musicale per il figlio, ma siccome in giugno egli fallì la prova d'ammissione, dovette ripiegare sulla classe bilingue inglese-tedesco, “perché il tedesco è la lingua degli affari!”. Bettino in effetti fa ottimi affari coi crucchi, che però al telefono insistono per parlare inglese.

E poi, alla fine di giugno, a scuola è arrivato anche Pippo, per iscrivere il suo Pipino. Si è fermato un po' smarrito nell'atrio (lo ricordava più grande) e alla fine si è deciso a chiedere ai bidelli: dov'è che ci si iscrive?
In fondo al corridoio. Pippo si è messo in fila dietro un nero di due metri, un vero armadio. Questo non lo ha turbato più di tanto, perché Pippo non ce l'ha coi neri, basta che lavorino. Nel suo reparto ha un apprendista nero che è molto bravo e si fa i fatti suoi. Per dire, se sua figlia finisse in classe con Pipino, non ci sarebbe nessun problema, pensa Pippo.

A fine luglio il preside ha invitato tutti i genitori ad assistere il sorteggio. Pippo non aveva tempo, doveva fare un po' di straordinario prima delle ferie. Il giorno dopo è passato davanti al tabellone ed è sbiancato: nella classe di Pipino c'erano quindici cognomi stranieri! Su ventisei? Proprio in quel momento ha sentito distintamente un “Casso!” alle sue spalle. Era l'armadio d'ebano già incontrato all'iscrizione.
“Ehi”, dice Pipino, “c'è qualcosa che non va?”
“Tu chiedi a me? Guarda qui, casso! Questo non va! Che classe è questa qua?”
“Ah, sì, c'è anche mio figlio. Ma...”
“Questa no è classe, è merda! Tutti stranieri! Mando mio figlio imparare italiano, e lo mettono con tutti stranieri? Ma è rasismo questo, o no? Casso!”
Per un attimo, un attimo solo, Pipino vorrebbe essere anche lui un nero scaraventato sulle spiagge di Lampedusa da una carretta del mare, solo per il gusto di esprimere con la stessa rozzezza i propri sentimenti, cazzo, mi hanno fregato di nuovo. Uno si sbatte per tutta la vita, mette al mondo un figlio, gli insegna l'educazione, e poi vlam! Te lo prendono e te lo sbattono nel ghetto con i figli dei neri. Pippo non avrebbe niente contro i neri, però non voleva crescere suo figlio esattamente ad Harlem. E guarda qui, invece, la classe del figlio di Bettino: tutti nomi italiani. E la figlia di Palmiro? Anche lì, l'unico cognome strano appartiene a una bambina russa che probabilmente suona il violino dalla culla. Intanto l'armadio d'ebano continua a bisbigliare il suo rosario di merda e casso, casso e merda.
“Senti un po'... a proposito, io mi chiamo Pippo”.
“Io Lumumba”.
“Piacere. Senti, adesso entriamo e chiediamo al preside”.
Lumumba guarda Pippo con aria incredula. Da solo non avrebbe mai osato. Del resto anche a Pippo tremano le gambe, un po'.

Nessun bisogno di chiedere al bidello, stavolta. Pippo sa dove sta la Presidenza, è un luogo che conosce bene, per antica frequentazione, e che ancora risplende in certi brutti sogni. Infatti non riesce a reprimere un brivido, quando al suo timido bussare risponde un “Avanti!”.
Il preside è un altro, naturalmente, tranne per la chierica che sembra uguale - come se lo avessero sostituito un pezzo alla volta, e la chierica fosse l'unico pezzo che apparteneva al modello di partenza - tutto questo Pippo riesce a pensarlo mentre con incerte parole descrive il suo problema, finché il preside smontabile non lo aiuta a mettere punto a una delle sue frasi involute e interminabili, interrompendolo.
“Vede, io capisco che lei e il signor Lubamba...”
“Lumumba”.
“Mi scusi. Capisco che lei e Lubumba possano trovarsi scontenti della composizione della classe, ma se mi mettessi a cambiare posto al figlio di ogni genitore che viene qui a lamentarsi, lei capisce... è proprio per questo motivo che procediamo al sorteggio”.

(In un'allucinazione, Pippo vede Lumumba sbattere il suo pugno da mezzo quintale sulla cattedra. “Che merda di sorteggio è, Casso! In una classe quindici stranieri e un'altra neanche uno?” Ma Lumumba non reagisce. Guarda a terra. Insomma, Pippo, tocca a te).

“Mi permette, signor Preside...”
“Prego”.
“Io non è che sono... che sia... io lavoro sa... anzi, al sorteggio non sono potuto venire perché dovevo fare una cosa, un lavoro... e allora...”
“Ma le garantisco che il sorteggio è stato effettuato con tutti i crismi della legalità, alla presenza di molti altri genitori”.
“Sì, però, signor Preside... sarà anche venuto con tutti i crismi, però... qualcosa deve essere andato storto, se in una classe ce n'è quindici e in un'altra, con permesso, no”.
“Quindici... lei intende gli stranieri?”
“Ecco, sì”.
“Per prima cosa, le dico di non preoccuparsi. Vedrà che una classe con una presenza di stranieri così ampia non potrà che rivelarsi una straordinaria opportunità di crescita per suo figlio. Anzi (voltandosi a Lumumba) per i vostri figli”.
“Va bene, signor Preside, però non capisco allora perché questa straordinaria opportunità l'avete data a mio figlio, e per dire, al mio vicino di casa Palmiro Basazzi, cioè a sua figlia, no”.
“Basazzi? Mi faccia vedere... Ah, ma è al musicale... Le spiego. La nostra scuola ha una sperimentazione musicale, molto apprezzata per le metodologie innovative che da anni sono state introdotte”.
“E gli extra lì non si possono iscrivere?” Pippo guarda Lumumba, che continua a guardare a terra, ma ha spalancato gli occhi.
“Tutti si possono iscrivere. Però c'è una lunga lista, capisce. Così abbiamo istituito una prova d'ammissione”.
“E l'hanno passata solo gli italiani”.
“In confidenza, non sono molti gli stranieri a iscriversi. Si tratta di un corso un po' più impegnativo degli altri, e così...”
(Impegnativo! Te lo dico io cos'è impegnativo! Difendere la merendina da cinque magrebini affamati, questo è impegnativo!)... Però, scusi eh, signor Preside, va bene che c'è la classe musicale e io nemmeno lo sapevo, però... ci sono delle altre classi con pochissimi extra, per esempio questa...
“Sì, certo, ma è una classe bilingue col tedesco”.
“E allora? Gli extra non si possono iscriversi a tedesco?”
“Certo che possono. Ma di solito non lo fanno mai, perché è una lingua più complicata, sa... e poi i nordafricani spesso parlano già francese in casa, e così...”

Il preside continua a spiegarsi, ma ormai Pippo ha capito. Perché non è mica scemo: è solo che nessuno gli spiega le cose. Le regole segrete.
E la Regola Segreta in questo caso è: iscriviti prima che puoi. Prima ti iscrivi, e meno stranieri tuo figlio si troverà in classe. Perché nessuno ce l'ha con gli extra, ufficialmente: basta che non vengano a casa tua a fare le ricerche con tuo figlio.
La gara comincia molti mesi prima. I più tempestivi iscrivono il figlio al musicale. Quelli che non passano la prova d'ammissione possono sempre ripiegare su tedesco. Quando si riempiono le classi di tedesco, è finita: cominciano ad arrivare in segreteria i neri, i marocchini, i cinesi, i filippini, tutta chinatown al completo, e tuo figlio studierà con loro. Per colpa tua, Pippo, perché tu arrivi sempre tardi.

Quando escono sul cortiletto, Lumumba ritrova la lingua che sembrava avere inghiottito. “Se lo sapevo, Casso! Lo iscrivevo a tedesco”.
“Ma è difficile, il tedesco”.
“Per noi è tutto difficile, italiano, tedesco, cosa cambia? L'importante è che mio figlio sta con italiani. In casa non parliamo italiano. Se non lo parla neanche a scuola, tu dimmi, casso: dove?”
Adesso è Pippo che guarda in basso. Pensa al dialetto che si parla ancora in casa sua. È bello spiegarsi in dialetto, ti riempie la bocca e ti sazia – finché non ti capita di dover parlare con un Preside. O con il responsabile Produzione. O con il bancario a cui stai chiedendo un prestito. O con tutti quei coglioni in cravatta che si prendono gioco di lui da quando era grande come Pipino, e che da qui in poi cominceranno con Pipino.

Adesso è ottobre. L'altro ieri la moglie di Pippo è andata all'assemblea dei genitori. I professori hanno spiegato che è una classe difficile, già molto indietro col programma, però l'integrazione con gli stranieri sta funzionando e blablabla. Pipino all'inizio era seduto con un bambino polacco che masticava l'italiano abbastanza per scambiarsi le carte di dragonball. Poi però hanno cambiato i posti nei banchi si è ritrovato una cinesina che non dice mai niente. Intanto al telegiornale hanno detto che i leghisti vogliono fare le classi di soli stranieri.

Pippo stamattina ha sentito che ne parlavano al bar. “È una vergogna”, ha detto Palmiro. “Roba da fascisti”. “Fascisti non lo so”, rispondeva Amintore, “ma razzisti sicuramente”. “Come se gli italiani fossero poi tutti bravi”, aggiungeva Bettino. “In classe con mio figlio invece ci sono certi zucconi made in italy...” “E invece nella classe di mia figlia c'è una ragazzina russa, bravissima, pare che sia già una virtuosa del violino...”
Pippo ha mandato giù l'ultimo boccone di brioche col cappuccino, è andato a pagare il conto, e ha deciso che la prossima volta vota Lega.


(Vedi anche: Stranieri e confusione)
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